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Categoria: Esteri
di Lidia Campagnano

Srebrenica, luglio 1995: fu genocidio. Così ha sentenziato la Corte internazionale di giustizia dell’Aja, su un’istanza presentata dalla Repubblica di Bosnia. Fu genocidio perché vennero perseguitati barbaramente e sterminati giovani, vecchi, uomini, donne e bambini, a migliaia, colpevoli di non essere serbi e dunque di occupare spazio “destinato” ai serbi dalle mosse e contromosse delle pulizie etniche (in quello stesso periodo la popolazione serba doveva abbandonare quasi tutti i quartieri di Sarajevo). Fu perpetrato dalle truppe del generale serbo-bosniaco Mladic, ma non è provato che fu l’esito di un ordine proveniente dallo Stato serbo, da Belgrado, cioè da Milosevic. Va detto che la Corte doveva limitarsi a rispondere al quesito sul quale è competente e nell’ambito di una controversia tra stati: nulla di più. Ma il sospetto che il magistrato abbia avuta presente la preoccupazione di non contribuire a rendere più difficili i rapporti con la Serbia mentre si tratta sul Kosovo, non può essere cancellato: è difficile infatti credere alla perfetta indipendenza di una Corte internazionale in un orizzonte dove non si vede traccia di governo collettivo delle contraddizioni mondiali. Inoltre, nella stessa città sede della Corte, si riunisce il Tribunale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia, che invece può propriamente processare i singoli responsabili.

Il guaio è che questo Tribunale, soprattutto a partire dai primi cenni della campagna militare della Nato contro quel che restava della Jugoslavia nel 1999, si è mostrato più che incline a concentrare la sua azione prevalentemente sullo Stato serbo: di più, contro Slobodan Milosevic, unico capo di stato letteralmente rapito per essere processato e trattato come un nemico piuttosto che come un imputato mentre gli apprendisti stregoni che hanno governato gli altri staterelli nazionalisti (Tudjman, Izegbegovic, per non nominare la Slovenia, la prima della classe dei secessionisti) sono andati impuniti persino dal punto di vista politico. Il procuratore Carla del Ponte, del resto, non si è mai moderata nel dichiarare le sue posizioni politiche e le sue preferenze circa la vicenda iugoslava: più che un procuratore è una vera militante, estremista per giunta.

Il risultato di questo disordine giudiziario mondiale è complessivamente uno solo: non esiste e non esisterà giustizia internazionale per i crimini che hanno insanguinato la morte della Jugoslavia. Se a questa constatazione si aggiunge il fondato dubbio circa la possibilità che giustizia venga fatta nei singoli Stati che con quei crimini hanno preso forma, diventa chiaro che in quella terra, un tempo di confine tra l’Ovest e l’Est europeo, è destinato a permanere e a proseguire la sua oscura azione infettiva un focolaio di disperazione, domanda di vendetta, deprivazione di identità, fatalismo e arte di arrangiarsi, uno di quei focolai nei quali la storia si trova a inciampare in continuazione per decenni se non di più, deragliando ogni volta.

Deragliando nella ripetizione della violenza e più precisamente verso la guerra. Perché non c’è dubbio che soltanto qualcosa che faccia giustizia può offrire alle vittime la pur parziale consolazione di essere riconosciute nel loro dolore e di vedere identificate le responsabilità e i responsabili, accettando in questo modo di continuare a vivere dopo l’irreparabile o, almeno, di sperare che vivano, tra ricordo e sano oblìo, le generazioni future. Certo, quando parti significative del popolo si sono abbandonate alla barbarie, la giustizia è un’impresa particolarmente difficile; e se un suo carattere internazionale può assumere una veste più universalistica e dunque meno vicina all’incrociarsi dei desideri vendetta, un suo carattere più locale, più interno, offrirebbe invece l’opportunità, altrettanto importante, di una presa di coscienza collettiva, un’assunzione di responsabilità più diretta. E più sanamente politica, nel senso originario di questa parola, quello che evoca la costruzione o la ricostruzione della polis, della convivenza civile.

Niente di tutto questo hanno ricevuto in dote a tutt’oggi i popoli della terra jugoslava. Il che la dice lunga sul tempo in cui viviamo, pieno di retorica sui diritti umani ma debole di cuore e di mente quanto alla fatica e all’immaginazione necessari a farli vivere dentro le politiche. Se tutti gli errori e i guasti che hanno costellato la vicenda iugoslava ad ogni sua possibile svolta dalla morte di Tito fino ad oggi, rendono ragione dell’insignificanza ideale, culturale, politica e spesso perfino economica degli Stati che ne sono nati, quegli stessi errori e guasti forse sono responsabili della pochezza del dibattito internazionale europeo (e italiano) sui problemi geopolitici dell’oggi, ancora declamatorio ma disperante per mancanza di colpi d’ala, di cultura, di capacità di coinvolgimento, di efficacia.

Se per la politica sempre meno l’orizzonte internazionale è anche l’orizzonte morale, l’orizzonte dell’universale umano, forse non c’è da stupirsi: in Iugoslavia è andata persa una parte importante della ragion politica europea. E a simili perdite nessun tribunale può porre rimedio da solo.