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Categoria: Esteri
di Carlo Benedetti

Tutto, a parole, era in nome dell’amicizia. Il “campo socialista” era un terreno comune per azioni coordinate nei campi più diversi. Il Patto di Varsavia era la struttura portante di una collaborazione militare che tendeva alla unificazione degli eserciti. Il Comecon era una sorta di “mercato comune socialista” che controllava e regolava, con i diktat che giungevano dalla sede di Mosca, i rapporti economici. Il Comintern aveva lasciato spazio ad una sorta di internazionale dei partiti dei paesi socialisti. E la capitale russa, in questa rete di rapporti d’amicizia, aveva assunto un ruolo guida rivelando, anche con le forme esteriori, il carattere di una forza sopranazionale. Tanto che nella metropoli sovietica tutto stava a dimostrare che si era realizzata una unità globale. C’erano istituti di cultura per ogni paese socialista, biblioteche che allineavano i libri nelle lingue dell’area del Patto di Varsavia, strade che portavano i nomi delle capitali dell’Est, monumenti dedicati ai personaggi più significativi della storia dei paesi “amici”; alberghi e ristoranti dedicati a “Budapest”, “Bucarest”, “Varsavia”, “Sofia”, “Berlino”; slogan che inneggiavano all’unità del campo socialista e programmi televisivi dedicati alla “collaborazione tra i paesi dell’Est”. Poi, con il crollo dell’Urss, tutto si è attenuato. La ristrutturazione ha preso il sopravvento. Ed ora – dopo l’implosione dell’Unione e le conseguenti lotte e polemiche degli ex paesi dell’Urss - comincia una nuova tappa. Ed è quella dell’attacco dell’Est alla Russia. Scendono in campo quelli che erano un tempo i grandi “amici”, i “bastioni del socialismo reale”. E tutti si impegnano in una lotta contro il Cremlino post-sovietico, in chiave filo-americana.

E’ la rivolta generale dell’Est che si sviluppa con il pieno appoggio della Cia, del Pentagono, della Casa Bianca, della Nato e delle grandi multinazionali dell’occidente. Il “mondo libero” del capitalismo prende la sua rivincita e costruisce nuove barricate che vanno però a creare una nuova cortina di ferro. Torna lo spettro di quel Winston Churchill che nel discorso di Fulton annunciò al mondo che “Da Stettino nel Baltico e Trieste nell’Adriatico, una cortina di ferro è scesa sul continente”. Erano altri tempi, è vero, ma ora è l’Est che ricostruisce una sua cortina. E la Russia resta dall’altra parte. Si rievocano, così, circostanze tutt’altro che dimenticate. Ed ecco che il fronte antirusso si apre con la Polonia dei due gemelli Kaczynski – il presidente Lech e il primo ministro Jaroslaw – che avvia le polemiche contro la Russia di Putin sulle questioni dei rapporti economici. E aiuta anche i ceceni che si battono per la loro indipendenza aiutandoli ad aprire loro sedi di rappresentanza a Varsavia e in altre località polacche. E c’è dell’altro: il ministro della Difesa polacco, Aleksandr Schilgo', licenzia dal suo esercito tutti gli ufficiali che a loro tempo avevano ottenuto un'istruzione militare in Unione Sovietica. (E qui va ricordato anche che l'antirussismo dei polacchi è cosa nota, così come quello degli ucraini delle regioni dell’ovest, Lvov, ad esempio).

E sempre all’Est si scopre che la Repubblica Ceca - diretta dal presidente Vaclav Klaus - manda a dire a Mosca (con un articolo-manifesto del quotidiano "Neviditelny") che: "Considerati gli stretti rapporti con l'Occidente, soprattutto con gli Stati Uniti, non dobbiamo temere nulla, anche se verso di noi saranno puntati tutti i missili russi possibili. L'imperialismo russo è estremamente vigliacco nonostante tutta la sua aggressività ed è allo stesso tempo prevedibile proprio grazie alla sua vigliaccheria".
Prende le distanze da Mosca anche l’Ungheria del primo ministro Ferenc Gyurcsany. La propaganda antirussa è di casa a Budapest e le sviolinate filoamericane sono il motivo conduttore della politica magiara. E c’è poi la Bulgaria del presidente Georgi Parvanov che si impegna nella svendita degli archivi della sua intelligence per sottolineare che la vecchia politica di Sofia era dominata dai sovietici del Kgb. Si allinea alla campagna antirussa anche la Romania del centrodestra diretta dal presidente Traian Baseascu. Qui le polemiche sono dure e riguardano i rapporti economici così come si erano andati formando nel periodo dell’Urss.

La questione dell’attacco a Mosca trova poi un momento di “coesione” che riguarda tutti i paesi dell’Est. Perché nelle varie capitali si registra un comune denominatore politico-diplomatico. Dominano qui le questioni militari e dell’allargamento della Nato. C’è una visione unitaria per quanto riguarda l’assenso all'installazione dei sistemi missilistici americani nell'Europa orientale. Praga e Varsavia hanno accettato che Washington, installi sui propri territori radar e missili vari. E l’Europa accetta il tutto in silenzio.
Ma la ventata antirussa raggiunge anche quei territori che un tempo erano parte integrante dell’Unione Sovietica. In prima linea, qui, si trovano l’Estonia e la Georgia. Gli estoni parlano di “occupazione sovietica” dimenticando che l’Armata Rossa liberò il Baltico dal nazifascismo. E si fanno forti – in queste loro dure polemiche – dello scudo della Nato. Intanto i media di Tallin battono sul tasto della minaccia russa e di una Russia che manifesta sempre più il suo essere potenza imperialista…

Si muove duramente anche il fronte del Caucaso. Perché la Georgia del presidente Saakasvili è decisamente contro Mosca. Minaccia le minoranze russe che abitano nel paese, rifiuta la realtà di regioni come l’Abchasia e l’Ossezia che guardano al Cremlino con estrema attenzione. L’antirussismo, quindi, è oggi una scelta politica e diplomatica che trova ospitalità in vari gruppi dirigenti dell’Est e dell’Ovest. E’ la forma moderna e concreta di una nuova costruzione geopolitica che si riallaccia a quella “cortina” annunciata a Fulton. Solo che oggi questo nuovo Muro che si sta realizzando non può essere messo nel conto di Mosca. Perché ad essere “dall’altra parte”, oggi, sono i russi… E’ un brutto vento che soffia e che annuncia, forse, una nuova guerra fredda.