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Categoria: Esteri
di Agnese Licata

Inizia male il nuovo anno per le Nazioni Unite. L’insediamento di un nuovo segretario generale – il sudcoreano Ban Ki-Moon – definito “anguilla sfuggente” si apre con la sua incerta condanna della pena di morte all’indomani dell’esecuzione di Saddam Hussein e, da ultimo, con gli abusi sessuali su minori che, secondo quanto denunciato mercoledì dal Daily Telegraph, sarebbero stati compiuti da alcuni componenti della missione Onu in Sudan (l’Unmis). Le prime parole da neo segretario Onu, Ban Ki-Moon le aveva dedicate proprio alla drammatica situazione in Sudan: “Le sofferenze del popolo del Darfur sono semplicemente inaccettabili”, aveva dichiarato a fine dicembre, impegnandosi a premere sul governo di Khartoum affinché accetti i caschi blu sul proprio territorio. Adesso però, all’indomani dell’inchiesta del quotidiano britannico, la possibilità di un intervento internazionale nel Paese africano sembra allontanarsi ancora di più. Secondo il Daily Telegraph, infatti, lo stesso governo sudanese avrebbe raccolto prove di queste violenze, tra cui un filmato nel quale dipendenti delle Nazioni Unite fanno sesso con tre ragazzine. Le prime indiscrezioni su possibili abusi sessuali erano emerse già alcuni mesi dopo l’arrivo delle forze Onu, avvenuto due anni fa con l’obiettivo di aiutare la ricostruzione di questa regione africana, disastrata da 23 anni di guerra civile. La missione conta più di diecimila uomini, tra personale militare e civile.

Accuse pesanti, insomma, quelle del giornale inglese, che certo non sarebbero state neanche ipotizzate se alle spalle non ci fosse una fonte più che attendibile. E infatti, la fonte citata dal Telegraph non è una fonte qualunque. Anzi, è interna all’Onu stessa. Si tratta di un rapporto stilato dall’Unicef nel luglio del 2005, nel quale si riferiscono le testimonianze di 20 vittime sudanesi. Secondo le loro parole, alcuni membri Onu stazionano regolarmente di fronte ai bar e ai ristoranti di Juba, facendo salire sui propri veicoli ragazzine anche di 12 anni.
Di fronte a queste accuse, le Nazioni Unite hanno risposto in modi diversi. Nel maggio scorso, in un’intervista, James Ellery, coordinatore britannico regionale per la missione Onu in Sudan, aveva risposto categoricamente: “Nessuna di queste denunce è stata provata. Stiamo parlando del Paese più arretrato dell’Africa e vi sono molti equivoci sul ruolo delle Nazioni Unite. Oltre il 90 per cento della popolazione è analfabeta e le dicerie si diffondono molto rapidamente”. Tutto ridotto velocemente a diceria di paese, quindi. Adesso che però all’accusa di 20 sudanesi qualsiasi si unisce anche qualche giornalista inglese, l’Onu ha deciso di aprire un’inchiesta interna.

All’immagine della più importante istituzione internazionale non hanno certamente giovato neanche le parole di Ban Ki-Moon a proposito della pena di morte. All’indomani dell’impiccagione di Saddam Hussein, dal nuovo Segretario Generale ci si aspettava una condanna dura e immediata, nel segno di una continuità con la linea di Kofi Annan. E invece, ai giornalisti che gli chiedevano una dichiarazione a questo proposito, ha detto: “Le decisioni sull’opportunità della pena di morte spettano a ciascuno degli Stati membri”, ma “i governi devono rispettare tutti gli aspetti delle leggi umanitarie internazionali”. Salvo poi correggersi di fronte alla valanga di critiche e affermare che “l’Onu deve lavorare per l’abolizione della pena di morte”, anche se “sarà un processo lungo” perché non tutti i Paesi membri dell’Onu “su questo argomento sono d’accordo”. Un saggio di equilibrismo che avrebbe fatto invidia alla nostra Democrazia cristiana. Come si possa pensare, anche solo per un attimo, di relegare alla sovranità nazionale scelte cruciali come queste, non è dato saperlo.

Quello che è invece facile intuire fin da questo episodio è la sudditanza di Ban nei confronti degli Stati Uniti. Un’impronta che difficilmente cambierà in futuro e che rischia di rendere ancora più debole il ruolo delle Nazioni Unite sull’assetto mondiale. Del resto, la scelta di un personaggio “grigio”, privo di carisma e proveniente da una nazione appoggiata da anni dagli Stati Uniti era stata fortemente voluta da George W. Bush, deciso a voltare pagina in modo deciso rispetto all’era-Annan. Non si poteva certo rischiare di ricevere un altro “no” come quello sull’intervento in Iraq.
E allora, perché stupirsi che Ban Ki-Moon non sia tra i più fervidi oppositori alla pena di morte, largamente praticata della “democrazia” targata stelle e strisce?

Ma l’Onu, oltre al volto asiatico e filoamericano del suo segretario, ha anche un’altra faccia da mostrare. È quella dei Paesi meno influenti, di quelli cioè che siedono nell’Assemblea generale ma quasi mai nel Consiglio di sicurezza, dove tutte le decisioni vengono prese. La voce di queste nazioni si fa sempre più insistente per un cambiamento radicale degli organi Onu. Vogliono delle Nazioni Unite più collegiali e forti, che non siano succubi dei voleri degli Stati Uniti. Tra questi, anche l’Italia, dal primo gennaio membro temporaneo del Consiglio, votata con 186 voti favorevoli su 192. Un voto avvenuto all’indomani della decisione del governo italiano di porre fine alla missione di Iraq e che dimostra, quindi, quanto la linea di Kofi Annan – a favore dell’indipendenza – fosse condivisa. Ban Ki-Moon dovrà farci i conti.