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Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari

Rafael Correa, quarantatrè anni, economista, candidato della sinistra, è il nuovo Presidente dell’Ecuador. Ha sconfitto, con quattordici punti di scarto, il candidato filostatunitense Alvaro Noboa, imprenditore agricolo dotato di scarse idee e, per giunta, confuse. Tanto gli exit-poll quanto il “conteggio rapido”, hanno confermato il sentire generale del paese andino, che senza i brogli del primo turno avrebbe avuto già da alcune settimane il suo legittimo, nuovo Presidente. Correa è l’ottavo presidente a far ingresso nel Palazzo di Carondelet a Quito. Dopo il boomerang nicaraguense, dove l’ambasciata Usa con le sue ingerenze pesanti, oltre ogni legittimità, ha contribuito alla vittoria di Daniel Ortega, anche l’Ecuador si è rivelato una pagina disastrosa per la propaganda statunitense. Ad Alvaro Noboa, infatti, non è bastato l’appoggio degli Stati Uniti: anzi, forse proprio il sostegno sfacciato offerto al “bananero”, è stato il colpo di grazia per le stesse aspirazioni statunitensi. Una volta di più gli Usa, incapaci di concepire una politica rispettosa del diritto ed improntata sulla multilateralità, hanno scelto un fantoccio locale per fermare l’onda lunga indipendentista e democratica e, nell’illusione che bastasse, si sono consegnati a quella sorta di Calderoli ecuadoriano di Noboa, che ha distribuito parole in libertà e minacce a piene mani circa il rischio di “consegnare il Paese a Chavez”. Pare che la popolazione ecuadoriana si sia preoccupata invece di non lasciare il suo destino nelle mani di Washington, che dopo la precipitosa fuga di Lucio Gutierrez era rimasta sprovvista di candidati presentabili, trovandosi così nella necessità di candidare il “bananero” in rappresentanza della Casa Bianca.

Proprio a confermare i timori di Washington, che vede come la peste il riequilibrio sociale ed il cambio d’indirizzo politico in America Latina, Correa ha dichiarato che la sua vittoria è “il trionfo della speranza e della cittadinanza”, aggiungendo che “da ora comincia un’era di giustizia sociale, istruzione, salute, lavoro, casa e dignità per tutte e per tutti”. Il meccanismo di attribuzione parlamentare dei risultati potrebbe non facilitare il cammino di Correa, che non dispone di parlamentari suoi e le probabili manovre statunitensi potrebbero avere come obbiettivo quello di creare un blocco istituzionale che renda difficile il rapporto tra Capo dello Stato e Parlamento. Per evitare ciò, il neo presidente si è detto pronto ad indire un referendum per chiedere alla popolazione se vuole o no la convocazione di una Assemblea Costituente che riscriva la Costituzione.

Per ora Washington tace. Parlano i suoi ventriloqui, come la banca d’affari Morgan Stanley. Un suo report mette in guardia dal rischio che la vittoria di Correa possa generare il blocco del pagamento del debito estero ecuadoriano “in quanto Correa ha un approccio etico e morale, quindi non finanziario, con il debito”. Correa, del resto, che pure ha annunciato la disponibilità al mantenimento della “dollarizzazione” (il dollaro dal 2000 ha sostituito il Sucre, la moneta nazionale nelle transazioni correnti ndr), non ha avuto esitazioni nel riaffermare quanto già dichiarato in campagna elettorale: “Meno che mai oggi firmerei il Trattato di Libero Commercio (TLC) con gli Stati Uniti – ha detto ai giornalisti nella conferenza stampa svoltasi l'altra sera – perché distruggerebbe la nostra agricoltura e la nostra economia”. Gli ha fatto eco Ricardo Patino, futuro Ministro dell’Economia, secondo il quale verranno realizzati grandi investimenti produttivi e sociali”. I fondi? “Verranno da un uso diverso dei proventi derivanti dalle risorse energetiche – ha detto Patino – e da una necessaria rinegoziazione del debito estero”. Va ricordato che l’Ecuador è il quinto produttore di greggio dell’America Latina e l’eventuale suo rientro nell’Opec risulterebbe una brusca inversione di tendenza nei confronti dell’assoggettamento petrolifero verso gli Stati Uniti sul quale si sono fondate le politiche energetiche degli ultimi governi di Quito.

L’intenzione di rientrare nell’Opec indica chiaramente la volontà di inserirsi nel cartello internazionale dei produttori di petrolio che contratta prezzi e forniture dello stesso. Sul piano della politica estera, nello specifico latinoamericano, insieme al Venezuela, la Bolivia ed il Brasile, la vittoria di Correa rappresenta la nuova configurazione di una sinistra continentale che ha le mani sui rubinetti di petrolio e gas. Se il neopresidente ecuadoriano ha ribadito la sua ammirazione per il Presidente del Venezuela Hugo Chavez, è proprio verso l’asse democratico e progressista latinoamericano che l'Ecuador indirizza la sua nuova collocazione geopolitica. Un asse democratico e progressista che è andato al potere negli ultimi sei anni, invertendo radicalmente l’assetto politico del continente. L’integrazione regionale, che sul piano del commercio interno ed estero dell’America Latina si fonda sul rilancio del Mercosur e sull’abbandono definitivo della struttura della dipendenza verso gli Stati Uniti, trova ora, con l'Ecuador, un nuovo importante alleato. Risulta inutile quindi chiedersi - come fanno politici e media legati a Washington - se e quanto il nuovo presidente ecuadoriano intraprenderà un cammino “chavista”. Il governo di Correa troverà in Lula, Kirchner, Bachelet, Ortega, Torrijos, Castro e Chavez interlocutori privilegiati, perché Brasile, Argentina, Cile, Nicaragua, Venezuela e Cuba rappresentano i punti di riferimento del nuovo assetto latinoamericano in chiave indipendentista e regionalista.

Agli Stati Uniti Correa offre la disponibilità a raggiungere accordi sulla base del rispetto reciproco e, quanto alla sovranità del paese andino, si è detto “indisponibile” a rinnovare il contratto con Washington per l’uso della base di Manta, il cui contratto scade nel 2009. Bush, quindi, dopo le elezioni di “mid term” e il Nicaragua, con l’Ecuador incassa la terza sconfitta nel giro di venti giorni e resta in attesa delle imminenti elezioni venezuelane, che non preannunciano niente di buono per gli Stati Uniti. L’impero accusa i colpi.