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Categoria: Esteri
di Giovanni Gnazzi

Un muro doppio, lungo 700 chilometri, da san Diego a San Antonio, che attraversa tutta la California. Costerà 1220 milioni di dollari, anche se le stime più realistiche aggiungono altri sei o ottomila milioni ulteriori per il completamento dell’opera. Separerà gli Stati Uniti dal Messico e, soprattutto, le braccia messicane dagli affari statunitensi che su di esse prosperano. Il presidente Bush ha promulgato ieri la legge che da il via alla costruzione della muraglia, tra le proteste dei democratici e quelle dei messicani, alle quali si sono aggiunte le rimostranze dei paesi dell’America centrale. Il governo messicano ha manifestato il suo “profondo fastidio” per l’iniziativa, esprimendo un “energico rifiuto all’innalzamento del muro” ed ha sottolineato come la misura “danneggia le relazioni bilaterali nel loro insieme, essendo contraria allo spirito di cooperazione che deve prevalere per garantire la sicurezza nella frontiera comune”. Il Messico, attraverso il presidente del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, Luis Alfonso de Alba, ha comunque annunciato che rivendicherà il diritto al libero transito, attraverso un progetto di risoluzione all’Assemblea Generale dell’ONU. Bush ribadisce il via libera al progetto ma, pur dicendosi convinto che il muro servirà a proteggere le frontiere, molto più prosaicamente, nelle sue intenzioni servirà anche a regolare i flussi migratori nella direzione che la supremazia bianca ritiene necessaria, per non soccombere di fronte all’esplosione demografica dei latinos intervenuta negli ultimi venti anni.

Il Messico scopre sulla propria pelle la differenza tra l’immigrazione latina e quella cubana: ai cubani che raggiungono clandestinamente gli Usa arriva la cittadinanza, gli altri trovano i cani poliziotto, i vigilantes e i muri. “Serve a proteggere le nostre frontiere” ribadisce Bush che, in un sussulto di lucidità, si è però detto consapevole che non sarà certo un muro, per lungo e alto che sia, a fermare l’immigrazione clandestina. Insieme al muro, Bush - affiancato da Dick Cheney (che, come di consueto, starà già pensando come assegnare alle sue imprese gli appalti miliardari dei lavori) - ha chiesto al Congresso e al Senato di approvare una legge specifica sui permessi di lavoro temporanei per gli immigrati. Anche questa, secondo Bush, servirà a “ridurre la pressione alle nostre frontiere”. In questa richiesta, che si lega inscindibilmente alla creazione del muro, emerge tutta la ratio della legge, che si fonda su un elemento semplice: le braccia a basso costo dell’immigrazione servono per il tempo che servono e non oltre; devono funzionare come deterrente nei confronti del costo del lavoro interno, ma non debbono intaccare i costi sociali che ne derivano; serve il lavoro, non i lavoratori, i quali hanno obblighi, non diritti. Sono le braccia che consentono la crescita dell’economia statunitense e la regolamentazione al ribasso delle politiche salariali.

La politica statunitense verso il Messico conferma così il progetto di fondo insito nelle relazioni che Washington vuole imporre: da un lato il Nafta e l’Alca (quest’ultima sostanzialmente seppellita dalla sinistra di governo latinoamericana), dall’altro i muri. Da un lato esportazioni di merci eccedenti degli Stati Uniti a drogare i mercati a sud del Rio Grande; dall’altro l’impossibilità per l’immigrazione latina di accedere al mercato del lavoro statunitense. Merci libere, persone prigioniere. Il Messico si conferma essere, secondo gli strateghi Usa, una estensione del mercato statunitense dove scaricare manufatti di bassa qualità e a basso costo, mentre si cerca - con la forza - d’imporre dei flussi migratori ridotti per ricollocare la disoccupazione interna in funzione supplementare a quella mano d’opera fino ad ora garantita dall’esodo massiccio degli immigrati messicani.

I sondaggi statunitensi non sembrano premiare la scelta dell’Amministrazione, dal momento che il 53 per cento degli intervistati si dice contrario all’edificazione del muro, contro il 43 che si dice favorevole. Ma nella sua politica migratoria, Bush conferma l’essenza stessa delle sue tesi sulla civiltà: i diritti per i ricchi, i muri per i poveri.