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Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari

Ha un prodotto interno lordo misero, ma una storia straordinaria. Un territorio piccolo, ma incute un timore grande. Sarà per questo che il Nicaragua, 16 anni dopo la sconfitta sandinista seguita a dieci anni di guerra e di embargo, continua regolarmente ad agitare i piani dell’Amministrazione statunitense. Il Segretario alla Difesa Usa, Donald Rumsfeld, che si trova in questi giorni proprio a Managua, dove partecipa ai lavori della Conferenza dei ministri della Difesa delle americhe, rappresenta la più forte - per quanto celata - preoccupazione statunitense per l'esito possibile della campagna elettorale. E per capire quali siano ancora i margini per l’intervento diretto statunitense in vista del prossimo 5 Novembre. I sondaggi elettorali danno in netto vantaggio la coalizione “Nicaragua trionfa”, guidata dal Segretario Generale del Frente Sandinista, il Comandante Daniel Ortega, che si presenta per la quarta volta alla sfida per la presidenza della Repubblica. La destra nicaraguense, divisa tra liberali guidati da Josè Rizo e i conservatori guidati da Eduardo Montealegre, banchiere dal passato truffaldino ed espressione delle banche e dei grandi proprietari, risulta non essere in grado - proprio per le sue divisioni - di fermare la corsa sandinista verso la vittoria. Si deve anche tenere conto che la Chiesa, diversamente dal passato, ha sostanzialmente archiviato l’ostilità verso il Fsln il quale, con abilità politica, persino spregiudicatezza, raccoglie nelle sua fila anche ex contras e si propone, in forma riconciliatoria e antipolarizzatrice, come unica via d’uscita credibile allo sfascio economico, sociale e politico del Paese.

Ma la competizione elettorale, in Nicaragua più che altrove, nasconde dietro la presenza dei partiti la competizione politica vera. Quella cioè che offre due alternative nette sul piano delle politiche economiche e sociali e, cosa non meno decisiva, la natura del rapporto con il vicino poderoso di Washington. La differenza vera in campo, che sovrasta tutte le altre, sta proprio qui. Gli Stati Uniti vedono nella vittoria di Daniel Ortega il riproporsi di un vero e proprio incubo. E questo non solo e non tanto per ragioni economiche (anche se il progetto di un canale di collegamento tra i due oceani non è affatto cosa secondaria, specie in ragione dell’inadeguatezza ormai conclamata di quello di Panama), quanto politiche, militari e mediatiche.

Sul piano strettamente politico, l’eventuale vittoria di Ortega, infatti, riporterebbe il paese centroamericano in una dimensione sovrana, facendo così venir meno il sostanziale protettorato statunitense. Protettorato che, in barba ad ogni decenza, viene ribadito proprio in questi mesi dall’attività scopertamente ingerente degli Stati Uniti nella campagna elettorale nicaraguense. Deputati, senatori e uomini d'affari, insieme all’ambasciatore Usa, Paul Trivelli, riuniscono i partiti della destra minacciando e promettendo in funzione della loro disponibilità ad allearsi per impedire la vittoria sandinista. Ultimo, in ordine di tempo, il senatore Dan Burton, autore insieme a Jesse Helms della legge appunto denominata “Helms-Burton” contro Cuba, definita dal panel dell’Unione Europea un concentrato di pirateria e arbitrio internazionale, una sorta di “estensione a livello mondiale della giurisdizione americana”.
Proprio Dan Burton ha convocato una conferenza stampa alla fine della sua “missione” in Nicaragua, ammonendo i partiti della destra e intimandogli di allearsi contro i sandinisti e minacciando la popolazione, nel caso di una vittoria di Ortega, di un cambio radicale nei rapporti con Washington. Vittoria che, nel sistema elettorale maggioritario a doppio turno, potrebbe essere garantita anche dal raggiungimento del 35% dei voti al primo turno - se il distacco con il candidato che segue dovesse essere di almeno cinque punti - o, anche, con un distacco di un solo voto, se al primo turno uno dei due canidati dovesse raggiungere il 45% dei consensi. Si tenga conto che gli ultimi sondaggi assegnano alla coalizione di Ortega una forchetta tra il 33 e il 36 per cento dei voti.

Ortega ha anche denunciato il ruolo scoperto della OEA (Organizzazione degli Stati Americani) che, attraverso la sua missione di osservatore elettorale, ha già tentato di delegittimare il lavoro del Consiglio Supremo Elettorale, l’organo costituzionale che sovrintende la regolarità del voto e i cui componenti sono eletti dal Parlamento. L’OEA sostiene che la maggioranza di magistrati sandinisti nella composizione dell’organismo, non darebbe piena garanzia d’imparzialità, dimenticando che anche nelle elezioni precedenti lo stesso Consiglio non ebbe difficoltà ad assegnare la vittoria ai liberali, nonostante ripetute e documentate accuse di brogli. L’OEA, invece, si è dimostrata la mano politica internazionale a sostegno del governo in carica durante la crisi costituzionale che, nei mesi scorsi, aveva opposto frontalmente il Presidente Bolanos al Parlamento. L’atteggiamento dell’organismo, strumento storico di Washington nell’emisfero, venne duramente contestato con l’accusa di partigianeria sfacciata verso il governo. Insomma, l’OEA non ha davvero le carte in regola per dubitare di nessuno, semmai dovrebbe avere attenzione a non mostrare così sfacciatamente da che parte sta.

Le provocazioni di Burton, che seguono quelle di diversi esponenti nordamericani in processione in Nicaragua da quando è iniziata la campagna elettorale, risultano eccessive e rischiano di produrre un effetto boomerang. In ogni paese del mondo, l’atteggiamento degli Stati Uniti - che convocano partiti, finanziano le loro campagne elettorali e minacciano gli elettori - sarebbe considerato un’ingerenza indebita negli affari interni di un paese; ma nello specifico del Nicaragua la cosa è ancora più grave, vista la diretta relazione delle minacce odierne con l’aggressione terroristica, l’embargo e la guerra finanziata e diretta da Washington negli anni ’80, che costò cinquantamila morti al piccolo paese centroamericano. Lo scopo è quello di far votare con una pistola alla tempia: se vince la destra arriva il denaro, se vince la sinistra comincia la crisi. C’è poi da aggiungere che, ad agitare ulteriormente i sonni dell’Amministrazione Bush, c’è il legame forte tra sandinisti, Cuba, Venezuela e Bolivia, foriero di un possibile ampliamento dell’alleanza politica ed economica sancita pochi mesi addietro a L’Avana tra Castro, Chavez ed Evo Morales, che potrebbe comprendere Ortega nel caso di una sua vittoria elettorale.

Per quanto attiene all’aspetto militare, si deve sottolineare in premessa come l’esercito nicaraguense, eredità di quello sandinista, sia l’unico esercito non golpista della regione. Nonostante la cooperazione militare con gli Usa, l’esercito nicaraguense continua ad avere una idea precisa e non statunitense della sovranità nazionale e dell’obbedienza alla Costituzione; idea che ha ribadito nei diversi passaggi critici della vicenda politica nicaraguese di questi ultimi anni, anche opponendosi ai tentativi golpisti che hanno ripetutamente accarezzato il presidente uscente Bolanos.
Ma l’aspetto più importante è relativo all’assetto militare del Nicaragua, le sue dotazioni di armamenti e la relazione con le forze armate a livello emisferico, controllate direttamente dagli Usa. In particolare, il governo statunitense preme affinché 1500 missili antiaerei SAM-7, di fabbricazione russa, in dotazione all’esercito, vengano distrutti senza contropartite. L’impegno, che porterebbe a 2100 il totale dei missili già distrutti dallo scorso anno, s’inquadra nel piano statunitense per la “limitazione degli armamenti in America centrale”. E’ una limitazione che, ovviamente, riguarda solo quelli dei paesi considerati politicamente “a rischio”. Ora, se la destra ha aderito entusiasticamente all’ulteriore richiesta Usa, Daniel Ortega ha sottolineato come “gli accordi militari andrebbero inquadrati dentro una cornice di rispetto e di sicurezza regionale” ed ha annunciato la disponibilità del Fsln ad approvare la riduzione del potenziale bellico “solo se anche i Paesi vicini muovono gli stessi passi”. E’ noto invece come i Paesi confinanti siano fortemente armati, fondamentalmente allo stesso livello conosciuto nella decade degli anni ’80, quando gli Usa, timorosi della capacità bellica del Nicaragua sandinista, trasformarono l’America Centrale in una sorta di deposito di armi in funzione di deterrente militare antisandinista e di rifornimento per i contras.

Quella della riduzione dell’armamento dell’esercito nicaraguense risulta quindi essere un passaggio obbligato per le strategie di controllo militare Usa nella regione, tenendo anche conto dell’assoluta sproporzione della capacità militare sul campo tra il Nicaragua e gli altri paesi, cosa che preoccupa non poco Washington, conscia dell’improbabilità, in un eventuale scacchiere di crisi a livello emisferico, di poter proporre un contenimento nicaraguense ad opera di Honduras, El Salvador e Guatemala con speranze di successo. Il ragionevole timore del Pentagono è che una eventuale crisi nell’area potrebbe essere risolta solo con l’impegno diretto di Washington, cosa che appare, vista la debacle in Asia, improponibile. Questo viaggio di Donald Rumsfeld in Nicaragua, alla vigilia del voto, sarà l’ultimo tentativo di costringere ad un ripensamento e, in chiave elettorale, di ribaltare minacciosamente la natura dello scenario.

Anche sotto il profilo mediatico gli Usa hanno tutte le ragioni per temere la vittoria dei sandinisti. L’immagine di Davide che sfida Golia, icona inevitabile degli anni ’80, si riproporrebbe con una straordinaria forza mediatica. Del resto, la vittoria di Ortega confermerebbe il trand progressista in America latina dove, ad eccezione della truffa elettorale messicana, i governi filo-statunitensi hanno subito rovesci ovunque. Una vittoria sandinista riaffermerebbe la crisi del gigante Usa, l’incapacità di riuscire a governare persino il suo “giardino di casa”, mentre si propone come gendarme del pianeta e guida politica dell’Occidente.
Il ritorno al potere dei sandinisti - insieme ai cubani catalizzatori assoluti dell’aggressività statunitense nell’area - ridarebbe energia ai processi d’integrazione politici ed economici dell’area, riproponendo un adagio che nella sua semplicità risulterebbe devastante: per quanti sforzi faccia Washington, si vota e si sceglie ognuno nel proprio paese. E c’è il rischio che, in Nicaragua, il cappello di Sandino assuma, come per incanto, le sembianze di un’urna elettorale.