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Categoria: Esteri
di Matteo Cavallaro e Giorgio Ghiglione

Varie sono le teorie che tentano di spiegare la politica estera dell’amministrazione Bush. C’è chi dice che bombardare un paese faccia fiorire la democrazia; chi dietro vede solo l’ombra nera del petrolio; chi parla di un tentativo di fermare una presunta nuova valuta internazionale nota ai più come petroleuro e ultimi, ma non per importanza, i soliti complottisti che in tutto ciò vedono un piano per la dominazione del mondo. In pochi però si preoccupano di dare un’interpretazione geografica delle tensioni in atto.Il problema di analizzare l’azione delle grandi potenze dentro lo spazio geopolitica, da sempre appassiona studiosi e non. Il primo a codificare una vera e propria teoria al riguardo fu un certo Sir Halford Mackinder. Questo geografo inglese, all’inizio del XX secolo inventò il termine “Heartland”, intendendo con esso la zona centrale dell’Eurasia. Ebbene, secondo Mackinder, chi controllava questo territorio, controllava il mondo. Ovviamente tale ipotesi era figlia del suo tempo e negli anni ’30 l’americano Spykman rivistò la teoria sopracitata. Il problema di analizzare l’azione delle grandi potenze dentro lo spazio geopolitica, da sempre appassiona studiosi e non. Il primo a codificare una vera e propria teoria al riguardo fu un certo Sir Halford Mackinder.
Questo geografo inglese, all’inizio del XX secolo inventò il termine “Heartland”, intendendo con esso la zona centrale dell’Eurasia. Ebbene, secondo Mackinder, chi controllava questo territorio, controllava il mondo. Ovviamente tale ipotesi era figlia del suo tempo e negli anni ’30 l’americano Spykman rivistò la teoria sopraccitata. Dall’Heartland nasceva il Rimland, dal cuore del’Eurasia il potere si spostava ai suoi confini. Per lo studioso americano, infatti, l’unico modo per ottenere l’egemonia mondiale era controllare la fascia marittima e costiera che circonda Europa ed Asia.
Per verificare la validità di questa teoria basta dare un’occhiata alla storia recente: la strategia del “contenimento”, adottata dagli USA nei confronti dell’URSS, ha un forte debito teorico verso questa scuola di pensiero.
Anche le idee di Spykman, tuttavia, hanno subito l’usura del tempo. I cambiamenti della geografia economica mondiale e le nuove tecnologie hanno di fatto reso obsoleta la teoria del Rimland.
Ci si è infatti resi conto che non è necessario controllare l’intera fascia d’acqua, ma soltanto alcuni punti importanti. Gli stretti.

Bastano pochi dati per rendersi conto della validità di quest’ipotesi. Nel solo Stretto di Malacca circolano ogni giorno undici milioni di barili di petrolio. Altri 14 milioni passano attraverso lo Stretto di Hormuz, punto di accesso al Golfo Persico. Infine, ogni giorno il 5% del commercio mondiale passa attraverso l’Istmo di Panama. E, considerando che l’80% degli scambi avviene via mare, si capisce cosa succederebbe se, per puro caso, uno solo di questi tre passaggi obbligatori venisse chiuso.
A questo punto è lecito chiedersi cosa c’entri tutto questo con la politica estera americana.

Proviamo a considerare l’egemonia mondiale come un gioco. Vince chi riesce ad avere la possibilità di bloccare, in ogni momento, il commercio (e la macchina industriale) dell’avversario.
Uno dei giocatori più importanti, gli Stati Uniti, già controlla un’area importantissima come Panama, la quale però ha il grave problema di essere inadatta alle navi di nuova generazione.
I due stretti “minori”, Suez e Gibilterra, sono rispettivamente nella mani di Europa e Egitto. Si tratta di contendenti di secondo piano, alleati di Washington.
Rimangono i due passaggi obbligati di maggiore importanza presente e soprattutto futura: Hormuz e Malacca. Vicino al primo troviamo il paese più cattivo del mondo, l’Iran di Ahmadinejad, che negli ultimi tempi ha deciso di rimodernare la flotta, comprando armamenti russi.
Il secondo invece è a forte influenza cinese, con in più il problema di essere anche di fianco più grande paese musulmano del mondo: l’Indonesia e, questo in tempi di scontri di civiltà e lotta al terrore non è garanzia di tranquillità.
Controllare lo stretto di Malacca risulta al momento pressoché impossibile per ogni potenza mondiale. Per quanto sia Pechino che la Casa Bianca siano dotati di ottime basi di appoggio - rispettivamente le isole Spratly e Okinawa – nessuna delle due riesce a difendere i propri commerci, nemmeno dal rinascente fenomeno della pirateria e dalle possibili infiltrazioni terroristiche nella zona. E se i contendenti non riescono a difendere Malacca da qualche novello Sandokan, come possoni pensare di fermare i commerci dell’avversario?

A questo punto il Canale di Hormuz assume una importanza mai avuta nella storia, dato che sul suo passaggio viene regolata la disputa sulla supremazia marittima fra USA e Cina e quindi sull’egemonia mondiale.
Il principale porto della zona era, prima dell’embargo contro l’Iraq, quello di Bassora. Per la sua posizione uno sbocco perfetto per il petrolio iracheno, la terza riserva del mondo.
Nel 2003, dunque, la situazione per gli Stati Uniti era la seguente: metà del Porto di Hormuz poteva dirsi sotto controllo di alleati. L’altra metà era guardata a vista da uno storico nemico, l’Iran, e il fondo del Golfo Persico era controllato da un altro avversario, l’Iraq. L’obbiettivo plausibile era quello di ridurre al minimo le possibilità per la ex-Persia di intervenire sul traffico petrolifero, assicurandosi allo stesso tempo un’altra base di appoggio su una zona nevralgica per la Cina. Attraverso Hormuz, infatti, passa almeno un decimo del greggio consumato da Pechino.
Come nella guerra fredda, per sconfiggere l’avversario, non lo si affronta in campo aperto, ma in punti considerati strategici. La manovra irachena, unita alla presa di Kabul, ha formato una tenaglia intorno all’attore più refrattario della regione. Lo stretto di Hormuz è quasi sotto controllo.

A questo punto l’amministrazione Bush si trova di fronte ad una delle scelte più difficili dei suoi due mandati: attaccare Teheran vorrebbe dire eliminare un pericoloso fastidio dalla zona e ottenere il possesso assoluto sul Canale, ma rovesciare con le armi una teocrazia islamica potrebbe significare l’incendio definitivo del mondo musulmano, un mondo che si affaccia su Suez, su Hormuz, ma anche su Malacca.