In nessun paese del mondo la malattia di un Capo di Stato scatena tanta curiosità
e paginate di giornali come è avvenuto nel caso di Cuba e del suo leader.
Questo potrebbe essere, già da solo, l'indice della popolarità
del Presidente cubano, assunto al ruolo di incubo vivente degli Stati Uniti,
anzi di "spina nella carne", per dirla con le parole del senatore
Usa Fullbright. Fidel Castro sta bene. Alla faccia degli avvoltoi che festeggiano
la sua malattia nelle strade di Miami e dei loro supporters nella Casa Bianca,
il Comandante en Jefe sta affrontando il decorso post operatorio in condizioni
di stabilità del quadro clinico.
La scelta di Fidel, di dare con la massima trasparenza informazioni sul suo
stato di salute è certamente indice di forza politica. Perché,
dice Fidel, "non si possono inventare notizie buone o notizie false, perché
in questo caso l'unico che ne trarrebbe beneficio è il nemico";
e anche perché, come è riconosciuto dallo stesso Comandante, in
ragione dell'aggressione statunitense alla stabilità politica dell'isola
"la mia salute diventa un segreto di Stato e di conseguenza non possono
essere divulgate costantemente informazioni in merito". La scelta comunicativa è una scelta di trasparenza verso il suo popolo
ma è anche da porre in diretta relazione con le campagne disinformative
fabbricate a Miami, che da sempre hanno accompagnato la vita di Fidel Castro.
Non si contano i medici, portavoce, presunti esperti che dalle onde radio di
Radio Martì, o dalle pagine del Miami Herald, emittente
e giornale della gusanera della Florida, hanno diffuso al mondo, con
scadenza paranoica, le presunte voci sulle malattie di Fidel. Quasi tutto l'arco
delle infermità conosciute dalla ricerca medica sono state assegnate
al leader cubano: da un lato per mantenere viva la speranza dei fuoriusciti
di aver ragione prima o poi "biologicamente" del padre della Rivoluzione;
dall'altro per tentare di seminare incertezze e timori sull'isola così
da creare condizioni d'instabilità e tensione interna.
Facevano pandant con i proclami contenuti nelle dichiarazioni programmatiche
degli ultimi dieci presidenti degli Stati Uniti, che giuravano di porre fine
al regime socialista cubano e regolarmente lasciavano la Casa Bianca con Fidel
al posto di comando.
La scelta dei reazionari fuoriusciti di puntare alla "soluzione biologica",
sia detto, non è mai stata esclusiva: alacremente e con grande generosità
di mezzi e d'infamia, hanno cercato in lungo e largo ogni possibile momento
per attentare alla vita di Castro, soprattutto in occasione dei suoi viaggi
all'estero. Tentativi frustrati dall'intelligence cubana e dall'incapacità
congenita dei terroristi cubanoamericani di misurarsi con qualcosa di più
serio che non siano persone inermi come i passeggeri di un aereo civile.
Ma la "soluzione biologica" da essi attesa, è d'altro canto
l'unica speranza possibile, dal momento che né il terrorismo, né
le difficoltà interne all'isola, hanno avuto la meglio sull'integrità
di Fidel Castro e sulla tenuta della Rivoluzione cubana. E allora si cambia
tattica: da ieri si dice che, essendo la prima volta che Fidel delega ruoli
e conseguenti poteri, ci si domanda se la firma in calce al documento sia vera;
se sia un bluff o la prima ammissione di condizioni difficili per la salute
dell'ottantenne leader. In realtà si tratta di speculazioni vere e proprie;
proprio Castro ha sempre diffuso con la massima trasparenza le condizioni della
sua salute, anche in occasione di recenti episodi, quali lo svenimento nel corso
di una manifestazione in provincia dell'Avana nel 2001 o la caduta causata da
un tappeto mal posto durante una manifestazione pubblica a Santa Clara nel 2006,
che causò fratture al femore e al braccio del Comandante. Dunque?
La transizione
Ci s'interroga ora sul "dopo Fidel". Lo fanno, preoccupati e poco
capaci di programmare, le teste d'uovo di Washington, che solo pochi giorni
or sono hanno diffuso l'ennesimo piano "per la libertà a Cuba"
che non consta di nessuna novità rispetto alle decine già precedentemente
elaborati e regolarmente frustrati. Solo l'importo dei finanziamenti cambia
ogni volta; cresce in misura della vicinanza della scadenza elettorale statunitense.
Più le elezioni si avvicinano, più crescono le promesse alla lobby
mafiosa cubanoamericana, più aumenta l'importo dei fondi destinati alla
sovversione contro Cuba.
S'interrogano anche, con ragione e con motivi opposti, i milioni di cubani che
vedono in Fidel il padre della patria, il capo di una nazione prima ancora che
il suo presidente.
Il comunicato con il quale Castro delega temporaneamente le funzioni e i ruoli che sosteneva nell'ambito del governo dell'isola, ha già scatenato nei media internazionali interpretazioni che, in alcuni casi, sono visibilmente il risultato di una cattiva conoscenza dell'isola e della sua realtà politica, in altri appaiono una occasione irrinunciabile per gettare fango e, possibilmente, tramite qualche fuoriuscito che, una volta all'estero, è stato abilmente trasformato in "prestigioso intellettuale" o qualcosa di simile.
Il fatto che Raul Castro sia stato insignito delle leve del comando si deve all'applicazione di una soluzione istituzionale. Da un lato certifica ulteriormente l'ipotesi temporanea della delega, dall'altro è, comunque, la soluzione naturale in osservanza della catena di comando. Ma l'affidamento di poteri specifici ad un'altra serie di dirigenti, poteri che rispondono comunque alle competenze che hanno ed alle funzioni che svolgono, segna un dato importante. Fidel annuncia quali sono i dirigenti chiamati a gestire la fase di transizione. Coinvolge tanto uomini della vecchia guardia (los historicos), quanto personalità della nuova generazione di dirigenti rivoluzionari in pista da qualche anno.
Perché la contraddizione generazionale, che ovunque esiste, a Cuba è
risolvibile con intese sul piano gestionale collettivo. Non ci sono contraddizioni
ideologiche o politiche; modelli internazionali di riferimento diversi.
Che cosa succederà nessuno può dirlo; gli scenari aumentano a
seconda del grado di fantasia di chi scrive, che risulta quasi sempre inversamente
proporzionale al grado di conoscenza che si ha di ciò che, appunto, si
scrive. I pensatori illustri del Dipartimento di Stato Usa e della Cia sono
al lavoro da quasi cinquant'anni senza averne azzeccata una. I cosiddetti "dissidenti"
vendono un tanto al rigo le loro frustrazioni redatte in forma di articoli per
chi li vuol comprare. I cubani avvertono come un pezzo importantissimo della
loro storia, quella segnata dall'indipendenza, è in gioco. Se qualcuno
pensa di rivedere scene già viste nel blocco orientale alla fine degli
anni '80, rischia di rimanere deluso. Il "dopo Fidel" è in
preparazione da anni e chi lo ha preparato - cioè Fidel stesso - è
abituato a vincere dal 1959.
E' evidente che la struttura socialista dell'isola non ha modelli economici diversi dove scegliere: o quello cinese, o quello vietnamita, ben sapendo però che si tratta di definizioni grossolane, buone per i titoli o per riempire righe, ma non perfettamente calzanti. Raul é identificato come fautore del modello cinese (stretto controllo politico centralizzato su una economia di tipo capitalistico) ma è il primo a sapere che un modello realizzato in una società con il 90% dei suoi abitanti nelle campagne ed il 10 % nelle città, è difficilmente perseguibile in un paese dove il 90% dei suoi abitanti è nelle città e solo il 10% è nelle campagne. E che i modelli socioeconomici di riferimento ed il loro terreno di confronto con il contesto socio-politico sono difficilmente paragonabili. E se invece di inseguire modelli ipotetici Cuba scegliesse, come ha scelto, il suo? Perché a forza di ritenere quelli più noti come gli unici possibili, si perde di vista la necessità effettiva di un modello, che deve avere tre caratteristiche fondamentali: praticabile, utile, condiviso.
E' il caso del modello cubano, che ha ottenuto risultati importanti in economia, riportando la crescita costante del Pil ai livelli più alti del subcontinente. E se l'imput politico è stato di Fidel, non si può negare che sia stato Carlos Lage Davila, di professione pediatra, il disegnatore del processo di riforme economiche che ha portato Cuba a superare brillantemente una situazione economica drammatica. Che vi abbia svolto un ruolo fondamentale Francisco Soberon Valdes, Governatore della Banca Centrale, così come il giovane ministro degli Esteri, Felipe Perez Roque, uomo dimostratosi all'altezza di un compito niente affatto facile nonostante la giovane età; Felipe ha contribuito non poco all'intensificazione delle relazioni di Cuba con il resto dell'America latina, disegnando uno scenario di alleanze che sono fondamentali per il sostegno al nuovo corso economico cubano.
Gli stessi Ramiro Valdes Menendez e Ricardo Alarcon De Quesada svolgono un
ruolo di primo piano e José Ramon Balaguer, figura prestigiosa, un tempo
custode ideologico del Pcc, quindi a capo delle relazioni internazionali, poi
alla guida del sistema sanitario, riscuote l'assoluta fiducia di Fidel, come
del resto José Ramon Machado Ventura, dirigente rispettato e capo dell'organizzazione
del partito o Esteban Lazo Hernandez, segretario del partito e uomo di notevoli
capacità organizzative.Quello che Fidel Castro pare aver voluto indicare
con nettezza, è che solo l'unità del gruppo dirigente cubano sarà
la garanzia di una transizione controllata e gestita senza perdere d'occhio
la necessità di riforme economiche.
Perché, alla fine, domandarsi chi e come potrà sostituire Fidel
è ozioso: nessuno potrà farlo. Si sostituiscono gli uomini, non
i simboli; si può aprire un nuovo corso, non ripetere la storia.