Nel continente eurasiatico si registrano processi d'assestamento contraddittori
e niente affatto lineari. Ma per due capitali strategiche una cosa è
certa: Mosca guarda oltre la catena degli Urali e Pechino tenta di raggiungerla
attraversando le lande siberiane. Ed entrambi i Paesi sanno che mentre l'Asia
è in pieno boom economico, l'Europa rischia di perdere valore strategico,
vulnerabile com'è all'ondata del cambiamento. Di conseguenza prende forma
un disegno geoeconomico che segna l'inizio di un nuovo modo di pensare e guardare
ai processi politici dei continenti interessati. Tutto è cominciato con
lo storico viaggio di Gorbaciov in Cina nel 1989, con le riforme politiche in
Russia degli anni '90, con il boom economico in Cina, con quei quindici patti
firmati nell'aprile del 1996 da Eltsin e Jiang Zemin per rafforzare i legami,
il commercio e gli scambi economici. A poco a poco i giganti si sono riavvicinati comprendendo d'avere bisogno l'uno
dell'altro. Ora le due potenze eurasiatiche - interessate ai nuovi sommovimenti
- comprendono che il centro di gravità del potere si va spostando inesorabilmente
ad est e che, di conseguenza, muta la natura del potere stesso.
Scatta una nuova operazione che ha una data recente: appena cinque anni fa.
Quando Russia e Cina aprirono un tavolo di trattative con le realtà post-sovietiche
dell'Asia: Kasachstan, Kirghisia, Tagikistan ed Usbekistan. Tutti e sei i paesi
si riunirono a Shanghai (la capitale commerciale e finanziaria della Cina che
avrà 23 milioni d'abitanti nel 2015) per discutere le loro dinamiche
politiche, le diverse strategie economiche, le strade della convivenza e della
concorrenza. Fu allora fissato un codice di comportamento che conteneva le linee
di un nuovo approccio alla politica economica internazionale. Ognuno mise sul
piatto della bilancia generale il suo capitale: la Russia il potenziale energetico
con la promessa di costruire quaranta nuovi reattori; la Cina risorse umane
e tecnologiche e le sue ciclopiche capacità concorrenziali; il Kasachstan
l'uranio, il nichel, il rame e i fosfati naturali; la Kirghisia l'oro, il petrolio
e la produzione idroelettrica; il Tagikistan i giacimenti di carbone, il gas
naturale, l'antimonio e il mercurio; l'Usbekistan le sue incomparabili riserve
di renio, un minerale che è largamente utilizzato per la produzione di
leghe resistenti alle alte temperature, per le apparecchiature cosmiche e dell'aviazione,
per gli apparecchi elettronici e i catalizzatori per il cracking del petrolio.
E fu così che a Shanghai si formò l'Organizzazione di cooperazione (Ocs), una gigantesca ragnatela di interessi economici caratterizzata dall'intesa sino-russo-centroasiatica. Una struttura sulla quale Mosca e Pechino hanno concentrato i loro impegni di natura diplomatica dichiarando (come ha fatto ora, in maniera decisa, il ministro degli Esteri russo Ivanov) che "i paesi situati al di fuori della regione non devono intromettersi nei suoi affari politici". Non si è fatto cenno a possibili intese di carattere militare, ma è chiaro - hanno fatto capire gli uomini di Mosca e di Pechino - che le aree geoeconomiche "vanno difese". Per ora, comunque, valgono quegli accordi interni alla Csi (la Confederazione degli Stati Indipendenti sorta sulle ceneri dell'Urss) che non toccano la Cina. Mosca è quindi ben sicura e ben protetta. Tenendo anche conto del fatto che c'è un'aspirazione comune russo-cinese per una nuova localizzazione e distribuzione delle ricchezze e del potere produttivo: una sorta di globalizzazione limitata che, grazie all'azione del libero scambio, della mobilità dei capitali e di una competizione rodata sull'arena mondiale, appare sempre più portatrice di modernizzazione e di sviluppo.
Sono stati anche questi i temi che l'Ocs ha affrontato nelle settimane scorse quando il Presidente russo Putin ha parlato del "Patto di Shanghai" ribadendo che la Russia è sempre all'erta: si dichiara in tutte le sedi contraria ad ogni tentativo di creare organismi in concorrenza con l'Organizzazione, che è già un esempio di dialogo fra culture e civiltà. E che è divenuta "un fattore di stabilità e di sicurezza nella regione eurasiatica". Ma un altro esponente del Cremlino - Boris Grislov, Presidente del Parlamento (Duma) - è andato oltre. E' entrato nel merito delle questioni che l'Ocs dovrebbe affrontare per quanto riguarda la sicurezza generale sferrando un attacco a quella politica statunitense in Asia che tenterebbe (secondo Grislov) di escludere Mosca e gli altri paesi dell'Organizzazione dal controllo della sicurezza del continente. Secondo il Cremlino ci sarebbe quindi una rinnovata arroganza del potere favorita dalla politica dell'attuale inquilino della Casa Bianca. Mosca parla chiaro: non vuole gendarmi americani nell'Asia. Ma la sua realpolitik la obbliga anche a ricordarsi che gli Usa ci sono già ed hanno anche buoni rapporti (politici e militari) con i paesi ex sovietici
Non è un caso se Putin - pur di attenuare le tensioni - ha voluto discutere
i temi della pace e della sicurezza nell'Asia centrale con il nuovo presidente
della Kirghisia, Bakiev, mettendo l'accento sul ruolo di quei meccanismi politico-diplomatici
come il Trattato di sicurezza collettiva e l'Organizzazione di Shanghai.
E in questo contesto (dimostrando clamorosamente che Mosca pensa sempre ad una
sua egemonia negli ex territori sovietici) Putin ha indicato "fra le priorità"
il potenziamento della base militare di Kant in Kirghisia. Si tratta - ha spiegato
- di una componente mobile ed operativa per operazioni di pronto intervento
nell'Asia centrale. Per cui le risorse di questa base saranno aumentate. Come
dire che Mosca non bada a spese quando sono in ballo gli interessi strategici
in aree considerate "vitali" e di diretta influenza.
Le "attenuanti" per questa nuova forma di intervento sono quelle che
si riferiscono alla lotta al terrorismo internazionale, ai pericoli dell'estremismo
religioso, all'aumento del traffico della droga e alle forme di criminalità
organizzata. In definitiva vinceranno ancora una volta le armi e le presenze
militari perché si parla già di divisioni da stanziare e di forze
collettive di pronto intervento. Per ora la Cina sta a guardare. Non prende
posizione e punta a fare dell'Organizzazione di Shanghai una pura e semplice
associazione di stati produttori interessati ad un mercato comune. Ma le iniziative
geoeconomiche sono evidenti. Ad esempio c'è una chiara riorganizzazione
dell'Unione Economica Eurasiatica (Uee), volta ad unificare i sistemi
finanziari e fiscali di Russia, Bielorussia, Armenia, Kasachstan, Kirghisia
e Tagikistan. E c'è il tentativo di costituire su tale base un cartello
volto a coordinare le esportazioni energetiche dei paesi produttori della Csi.
Tra l'altro l'idea di un'alleanza eurasiatica dei produttori di gas, evocata
da Putin nel corso di un incontro col presidente turkmeno Nijazov, sembra chiaramente
volta ad aumentare il peso di Mosca nella sua periferia.
Intanto gli osservatori russi della politologia mondiale individuano molte
nuvole grigie all'orizzonte. Perché sanno che gli Usa tentano di arginare
l'influenza russa nell'Organizzazione Mondiale del Commercio; che Mosca è
messa sotto processo per il deficit di democrazia e che gli americani insistono
sul tema della liberalizzazione del mercato finanziario. Chiedono, infatti,
di autorizzare l'attività delle filiali delle banche straniere in Russia
il che - ritiene il Cremlino - sarebbe in stridente contrasto con gli interessi
nazionali. Nessuna liberalizzazione finanziaria, quindi. Perché se passassero
le idee americane vorrebbe dire che le banche straniere in Russia diverrebbero
una specie di off-shore per esportare dal Paese capitali in qualsiasi momento.
Ma se Mosca vive le sue difficoltà pensando al mondo che la circonda
("Il nostro Paese - ha detto Putin - ha bisogno di una Borsa per la compravendita
di gas e petrolio, con il rublo come moneta corrente") anche Pechino si
trova ad operare in una realtà spesso incerta e indefinita con il suo
Presidente che ha chiesto a Putin petrolio, gas, carri armati, missili, sottomarini
e tecnologie per le centrali nucleari.
Comunque sia su questo scenario gravano sempre le ombre statunitensi. Ma le
nuove tigri asiatiche - che vediamo ora riunite nell'Organizzazione di
Shanghai - potrebbero riservare alcune sorprese, rivelandosi come reale contrappeso
all'influenza Usa nel mondo. Veri giganti con i quali fare i conti a colpi di
barili di petrolio, di centrali nucleari, di oro, di tecnologie e risorse umane.