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Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari

Se Margareth Tatcher era la “dama di ferro”, lei era quella d’acciaio. Jeane Kirkpatrick, ambasciatrice all’Onu durante l’Amministrazione di Ronald Reagan, è morta all’età di 80 anni. Operò nel pieno della guerra fredda, quando i reazionari ancora non si chiamavano, educatamente, neocon. Fervente anticomunista, svolse il ruolo di gendarme della dottrina Reagan in seno alle Nazioni Unite. L’attore-presidente l’aveva voluta con sé dopo aver letto i suoi articoli pubblicati sul Commentary Magazine, dove discettava di dittature e democrazie con una franchezza che rasentava la brutalità. In sostanza, la signora riteneva che l’unica forma per combattere “la minaccia comunista”, fosse quella di appoggiare senza riserve le dittature militari che, dall’America Latina all’Asia, s’incaricavano di portare avanti il lavoro sporco che gli Usa non sempre erano in grado di compiere. E, dove invece “l’asse del male” era al governo, allora bisognava sostenere con dollari ed armi i gruppi armati dell’opposizione, salvo addirittura formarli nel caso fossero assenti. A tutto questo, ovviamente, si aggiungeva la necessità strategica del riarmo statunitense nel confronto globale con il blocco socialista e con tutti i movimenti di liberazione d’ispirazione indipendentista e antimperialista a livello planetario. Insomma, ovunque i processi di liberazione dei popoli producevano un conflitto politico generalizzato che ponesse in discussione i suoi interessi, Washington doveva, direttamente o attraverso i suoi sgherri locali, intervenire a ristabilire l’ordine statunitense. Idee, quelle della signora Kirkpatrick, che fecero breccia rapidamente nell’Amministrazione di Reagan e Bush, che vedevano nel ruolo di gendarme globale la via d’uscita dalla fase di distensione che aveva prodotto – insieme alla pace – la nascita e lo sviluppo di processi di trasformazione degli assetti geopolitici di intere aree del mondo.

Alle posizioni più reazionarie, la Kirkpatrick arrivò, come spesso succede, partendo dal lato opposto. Dopo essersi laureata in Scienze Politiche all’università di Columbia, a New York, nel 1968, iniziò il Dottorato in contemporanea alla militanza nella gioventù del Partito Socialista degli Stati Uniti. Prontamente riavutasi dal trauma, scelse di entrare nelle fila del Partito Democratico, dove ricoprì diversi incarichi. Proseguì i suoi studi a Parigi e cominciò a lavorare come analista per l’ufficio di ricerca per l’intelligence del Dipartimento di Stato. Ma dopo alcuni anni, cominciò – siamo a metà degli anni ’70 – a criticare il Partito Democratico da posizioni ultra conservatrici. Un percorso segnato dalla pubblicazione di articoli e saggi monotematici e monocordi, una specie di ossessione bellicista che non poteva non affascinare, nel ‘79, il candidato alla Presidenza Ronald Reagan, che arrivò alla Casa Bianca nel 1980.

Con lei, si compose la squadra che vedeva Bush padre, ex Direttore della Cia nel ruolo di Vicepresidente, Alexander Haig nel ruolo di Segretario di Stato, John Casey, il superfalco nominato Direttore della Cia, Elliot Abrams, Sottosegretario per l’America latina e, appunto, Jeane Kirkpatrick, Ambasciatrice alle Nazioni Unite. A dare loro il sostegno parlamentare, il potente e nazistoide Jesse Helms, Presidente della Commissione Esteri del Senato. Quando invece anche il Congresso si oppose alla pirateria dell’Amministrazione, proibendo alcune delle sue iniziative terroristiche in America Latina, allora “la squadra” reaganiana diede vita alle “covert action” quali l’Iran-Contas-Gate, per il quale pagarono solo il tenente-colonnello dei marines Oliver North ed Elliot Abrams.

La Kirkpatrick fu una ambasciatrice spesso fuori contesto, perché non usò mai il linguaggio felpato della diplomazia e della politica: dichiarava bruscamente tanto i suoi odi come le sue attrazioni. Alcune davvero inconfessabili per chiunque, ma non per lei, che fu amica senza riserve di alcuni tra i peggiori genocidi. Tra questi, il Generale Leopoldo Galtieri, membro della Giunta militare argentina, che ringraziò pubblicamente per “aver impedito il consolidamento del movimento di sinistra in Argentina”, non importa a che prezzo.

Sì, qualunque prezzo pensava fosse giusto dover pagare per combattere la sua più grande ossessione: la guerriglia salvadoregna (contro la quale approvò e sostenne l’operato degli squadroni della morte) e il governo sandinista del Nicaragua, contro il quale, dopo aver lavorato per l’organizzazione delle bande terroriste dei em>contras, cercò con tutti i mezzi – leciti e soprattutto illeciti – di mobilitare anche il vecchio continente, che però gli rispose picche. Se infatti il Presidente sandinista Daniel Ortega, coperto di applausi, l’accusò direttamente e violentemente delle mattanze contras in Nicaragua, durante una famosa Assemblea Generale dell’Onu, un affronto storico lo subì proprio dalla Francia, quando il Presidente Mitterrand decise di sfidarla su El Salvador, firmando nel 1982 una dichiarazione congiunta con il Messico, nella quale i due paesi riconoscevano il guerrigliero “Frente Farabundo Martì” come “legittimo rappresentante del popolo salvadoregno”.

Come ambasciatrice la Kirkpatrick subì molti rovesci, ma la sua carriera – in verità non brillantissima – proseguì anche dopo la fine dell’Amministrazione Reagan, quando andò a lavorare in vari centri studi e fondazioni di estrema destra, la più famosa l’American Enterprise Institute. Questa, nel commentare la notizia del decesso, ha dichiarato che “l’Istituto piange la sua morte”, aggiungendo poi che gli Stati Uniti “hanno perso una grande patriota schierata a difesa della libertà”.

Una morte che invece è caduta sotto il silenzio dei mass media. L’ultima beffa per una persona che sull’ansia di protagonismo aveva incentrato tutta la sua vita.