La decisione di giovedì della Corte Penale Internazionale (CPI) di emettere un mandato di arresto per Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant rappresenta in larga misura un atto simbolico che mette però ancora una volta in luce, in maniera clamorosa, responsabilità e complicità dei sostenitori dello stato ebraico nel genocidio in corso. Il premier e l’ex ministro della Difesa israeliani, responsabili diretti delle atrocità contro la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza, sono accusati di crimini di guerra e contro l’umanità, per i quali le prove sono colossali e sotto gli occhi di tutto il mondo. Al di là della gravità delle accuse e dei crimini, la reale portata di questa decisione appare quasi nulla: Israele e il suo primo ministro, così come tutti gli altri responsabili dell’orrore, continueranno infatti a godere della protezione diplomatica degli stati Uniti e degli altri governi occidentali, a conferma del fatto che la giustizia internazionale resta altamente selettiva, debole e, in molti casi, funzionale ai calcoli geopolitici delle grandi potenze.
Il mandato riguarda principalmente le operazioni condotte a Gaza dal governo israeliano dall’ottobre 2023, caratterizzate, com’è noto, da bombardamenti indiscriminati, privazioni collettive di cibo, acqua ed energia e uso sistematico della fame come arma di guerra. La devastazione umanitaria, aggravata da blocchi continui, ha trasformato Gaza in un inferno a cielo aperto, dove la popolazione civile è intrappolata senza vie di fuga né mezzi di sostentamento.
Secondo il procuratore capo della CPI, Karim Khan, queste azioni configurano una violazione delle Convenzioni di Ginevra e rappresentano punizioni collettive che violano i principi fondamentali del diritto internazionale. Israele non riconosce tuttavia la giurisdizione della Corte e i suoi leader hanno sempre beneficiato di un’impunità pressoché totale grazie al sostegno incondizionato degli Stati Uniti, che forniscono armi, fondi e copertura diplomatica.
Dal punto di vista tecnico-legale, il mandato d’arresto è stato emesso dai tre giudici della camera pre-processuale del CPI, che sovrintende appunto ai casi preliminari, su richiesta del procuratore Khan. Questo organo del tribunale è responsabile di decidere se le prove fornite dal procuratore giustifichino l’emissione di mandati di arresto. Khan ha sottolineato l’urgenza di agire per evitare ulteriori interferenze nelle indagini, anche in relazione agli sviluppi militari e politici in corso. Il caso si inserisce nel contesto di un’indagine più ampia sui crimini di guerra condotti nei territori palestinesi, iniziata dopo la richiesta palestinese di indagare su eventi avvenuti dal 2014.
Le reazioni da parte del governo israeliano non si sono fatte attendere e, come da copione, sono state accompagnate da accuse di "antisemitismo" verso la CPI e i suoi funzionari. Il primo ministro Netanyahu ha descritto la decisione come un “attacco all’esistenza stessa di Israele”, rilanciando la narrativa vittimistica che da decenni giustifica qualsiasi atrocità commessa nei territori palestinesi.
Ancora più significative sono state le dichiarazioni di Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale, il quale ha apertamente minacciato di accelerare l’annessione totale della Cisgiordania in risposta al mandato. “Se il mondo vuole condannarci, allora dobbiamo mostrare la nostra forza”, ha dichiarato Ben-Gvir, rifacendosi a politiche espansionistiche che erano già in fase avanzata ben prima della decisione della CPI. L’annessione della Cisgiordania, accompagnata da politiche di apartheid sempre più esplicite, non è più un piano segreto ma una realtà che Israele sta implementando con il tacito consenso della comunità internazionale.
L’emissione del mandato di arresto ha esposto una volta di più l’ipocrisia dei governi occidentali, che si affrettano a sostenere la CPI quando si tratta di perseguire leader di stati “nemici” come la Russia, ma restano inerti di fronte alle violazioni sistematiche di Israele. Gli Stati Uniti, principali alleati dello stato ebraico, hanno definito il mandato “illegittimo” e ribadito il loro impegno a proteggere Israele da qualsiasi conseguenza internazionale.
Questa posizione non sorprende minimamente. Washington non solo non riconosce la CPI, ma ha adottato leggi che autorizzano l’uso della forza militare per liberare qualsiasi cittadino americano (o alleato) eventualmente detenuto dalla Corte. In questo contesto, Netanyahu e Gallant possono dormire sonni tranquilli, certi che non saranno mai consegnati alla giustizia.
La CPI, istituita con l’intento di perseguire i crimini più gravi a livello globale, è in definitiva un organismo incapace di colpire chi gode di protezioni geopolitiche. Il mandato d’arresto per Netanyahu e Gallant è destinato quindi a restare una mera dichiarazione simbolica, priva di conseguenze pratiche. Senza il supporto degli stati membri dello Statuto di Roma – molti dei quali preferiscono evitare scontri con Israele per ragioni economiche e politiche – la Corte non ha alcun mezzo per far rispettare le sue decisioni.
Il mandato d’arresto rappresenta in ogni caso una macchia indelebile per Netanyahu, Gallant e l’intero progetto sionista ed evidenzia una volta di più la natura coloniale e violenta dello stato di Israele. La protezione degli Stati Uniti e l’inazione della comunità internazionale assicurano però che questi crimini rimarranno impuniti. La vera vergogna non ricade solo su Israele, ma anche su quei governi occidentali che continuano a giustificare e sostenere le sue politiche, trasformando la giustizia internazionale in un teatro ipocrita dove il diritto cede sistematicamente il passo al potere del più forte.