Per i più ottimisti, la scelta da parte di Trump del senatore dell’Ohio, J. D. (James David) Vance, come candidato alla vice-presidenza rappresenta una rottura con l’ortodossia repubblicana sulle questioni che riguardano il ruolo internazionale degli Stati Uniti e, in misura minore, l’economia e la finanza. L’interesse maggiore in queste ore per il 39enne ex militare e “venture capitalist” è collegato proprio alle sue posizioni in politica estera, soprattutto per l’atteggiamento decisamente critico nei confronti della gestione della guerra russo-ucraina. Sul Medio Oriente, invece, Vance ha un curriculum più convenzionale, essendo da sempre un fermo sostenitore del regime sionista. La decisione di Trump potrebbe in ogni caso indicare un certo rimescolamento delle priorità strategiche di Washington, nella migliore delle ipotesi riducendo il rischio di una guerra tra grandi potenze che sta accompagnando la fase finale del mandato di Joe Biden.
Una serie di eventi negli ultimi giorni ha aperto spiragli per una soluzione diplomatica alla guerra nell’ex repubblica sovietica. Il fallito attentato di sabato a Trump in Pennsylvania ha in primo luogo consolidato la posizione di favorito dell’ex presidente repubblicano. Ciò ha fatto scemare le residue speranze del regime di Zelensky e degli ambienti russofobi americani di poter contare su altri quattro anni con un presidente democratico disposto a intensificare l’impegno USA per l’Ucraina.
L’altro elemento è appunto la scelta di Vance. Anche se il vicepresidente svolge raramente un ruolo di spicco all’interno di un’amministrazione, come ha dimostrato l’impalpabile Kamala Harris, il fatto che un candidato opti per un determinato “running mate” può essere un segnale degli orientamenti del suo futuro governo in questo o quell’ambito. Il possibile cambiamento del clima sul fronte ucraino è stato infine ribadito lunedì, ovvero in concomitanza con l’investitura ufficiale di Trump nella “convention” repubblica a Milwaukee e con la proclamazione di J.D. Vance a candidato alla vice-presidenza, con una insolita dichiarazione di Zelensky. L’ex comico ha per la prima volta sostenuto che la Russia dovrà partecipare alla prossima conferenza di pace, in programma nel mese di novembre.
Per quanto riguarda Vance, il giovane senatore repubblicano ha più volte espresso critiche esplicite al coinvolgimento degli USA e della NATO nella guerra in Ucraina. Alcuni mesi fa aveva scritto ad esempio un articolo per il New York Times, nel quale metteva in risalto le carenze dell’industria militare americana, impossibilitata a sostenere lo sforzo bellico necessario a sconfiggere la Russia. Vance anticipava inoltre l’inevitabilità di un accordo diplomatico per mettere fine alla guerra. Accordo che Kiev avrebbe dovuto accettare senza chiedere la restituzione dei territori orientali annessi da Mosca dopo i referendum dell’autunno 2022.
Queste opinioni lo avevano messo contro la maggioranza dei colleghi repubblicani al Congresso e sulla stessa linea invece dell’ala populista e trumpiana del partito. Un’attitudine, quella di Vance sull’Ucraina, dettata più che altro da ragioni di opportunità, visto lo spreco enorme di risorse per fornire armamenti a Zelensky e l’urgenza crescente di dedicare tutto il potenziale degli Stati Uniti al contenimento della “minaccia” cinese.
Su questi temi, Vance è sulla stessa lunghezza d’onda di Trump. Al contrario del primo mandato, quando il vice-presidente Mike Pence rappresentava sostanzialmente l’ala tradizionale e “globalista” del Partito Repubblicano, il possibile prossimo “ticket” presidenziale potrebbe proiettare a livello internazionale una posizione unitaria e, almeno in teoria, in opposizione al consenso transatlantico degli ultimi tre anni e mezzo. È chiaro che una situazione di questo genere metterebbe di nuovo in apprensione i leader più atlantisti dei governi europei, sottomessi totalmente a Washington dal febbraio 2022 e a breve forse costretti a rivivere la minaccia di Trump di un possibile disimpegno americano dal vecchio continente.
In simili circostanze, quei governi che oggi si sono trasformati a tutti gli effetti in vassalli degli USA sarebbero chiamati a riformulare le proprie politiche e a tornare a difendere gli interessi dei rispettivi paesi. Tanto più che Trump e lo stesso Vance riproporranno con ogni probabilità quell’inclinazione protezionista già evidenziata dalla Casa Bianca tra il 2017 e il 2021. Un problema che riguarderebbe l’Europa sia in maniera diretta, con possibili dazi e tariffe doganali sui beni destinati all’altra sponda dell’Atlantico, sia per i riflessi della probabile rinnovata offensiva di Washington contro Pechino, con il conseguente ripensamento delle relazioni euro-cinesi, oggi quasi ovunque ostaggio dei diktat americani.
Tornando a J. D. Vance, ci sono evidentemente anche ragioni di ordine politico ed elettorale nella scelta di Trump. La più scontata riguarda il suo stato di origine – l’Ohio – perennemente in bilico tra i due partiti anche se nelle ultime due presidenziali conquistato dai repubblicani in maniera relativamente agevole. Vance ha poi una storia personale legata alla working-class del Midwest, le cui tribolazioni sono state raccontate in un libro autobiografico di successo. Una caratteristica che potrebbe aiutare Trump ad accelerare lo spostamento già in atto di questa fetta dell’elettorato dal Partito Democratico a quello Repubblicano.
Soprattutto, però, la scelta di Vance sembra suggellare la marginalizzazione della corrente “moderata” nel partito, ancora maggioranza al Congresso e nelle strutture dirigenziali, ma sempre più in minoranza in termini di consensi tra gli elettori. La conquista del partito da parte dei cosiddetti “MAGA Republicans” trumpiani passa quindi anche per la vice-presidenza e segna la metamorfosi pressoché definitiva di un soggetto politico spostato sempre più verso la destra estrema.
Sul piano personale, Vance mostra comunque tutti i tratti dell’opportunismo e ostenta spesso una retorica populista e orientata verso lavoratori e classe media nonostante i legami con le élite economico-finanziarie americane. Il suo successo da imprenditore nella Silicon Valley è dovuto d’altra parte alla stretta collaborazione con il multimiliardario Peter Thiel, ex amministratore delegato di PayPal e finanziatore di cause conservatrici. Nella campagna elettorale del 2016, Vance aveva inoltre assunto una ferma posizione contro Donald Trump e si era anzi distinto per una serie di dichiarazioni molto dure nei confronti dell’allora candidato alla presidenza. Vance aveva ad esempio avvertito che Trump avrebbe potuto diventare “l’Hitler d’America”, mentre paragonava il ritrovato interesse degli elettori repubblicani per il tycoon di New York alla “dipendenza da eroina”.
Una volta constato che il vento stava cambiando, Vance ha operato una svolta di 180 gradi ed è diventato uno dei più accesi sostenitori di Trump, il cui appoggio sarebbe stato poi determinante nelle elezioni per il Senato del 2022. Da allora, le prese di posizione del senatore “junior” dell’Ohio hanno ricalcato quasi sempre quelle dell’ex presidente, dall’aborto (leggermente più sfumate rispetto agli integralisti cristiani dell’ultra-destra repubblicana) alla Cina, dall’immigrazione (xenofobe) fino all’Iran (da “falco”).
In ambito economico, il neo-candidato repubblicano alla vice-presidenza viene talvolta accreditato di intenzioni moderatamente riformiste, poiché durante il suo breve mandato al Senato ha ad esempio in alcune occasioni assecondato proposte dell’ala progressista del Partito Democratico, peraltro mai andate in porto, per imporre qualche restrizione alle attività delle grandi banche di Wall Street. Anche sul fronte delle tasse è sembrato non escludere possibili aumenti del carico fiscale sui redditi più alti. In generale e poco sorprendentemente, Vance vede tuttavia con sospetto ogni intervento governativo nelle dinamiche del libero mercato.
Per chiudere infine ancora con la politica estera, chi è già certo che non ci saranno cambiamenti sostanziali con la nomina di J. D. Vance è sempre Israele. Anche nella guerra in corso a Gaza, trasformatasi precocemente in un vero e proprio genocidio, quest’ultimo ha preso le difese del regime di Netanyahu, attribuendo l’intera responsabilità dei fatti a Hamas e alla resistenza palestinese.