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Categoria: Esteri

I dettagli emersi in questi giorni del bombardamento israeliano di un convoglio umanitario internazionale nella striscia di Gaza hanno confermato che si è trattato di un’operazione deliberata e non di un tragico “errore”, come sostenuto dal governo del primo ministro Netanyahu. Le conclusioni non sono una sorpresa, dal momento che lo stato ebraico agisce regolarmente in violazione di ogni norma del diritto internazionale, se non come una vera e propria entità terroristica. Quello però che la strage di operatori umanitari potrebbe innescare è un ulteriore aumento dell’opposizione contro Israele anche in Occidente, dove, in un altro ambito, si comincia a temere di possibili ripercussioni legali per via della complicità nel genocidio palestinese.

 

Testimonianze provenienti dalla striscia e un’indagine di Al Jazeera hanno dimostrato che il primo veicolo di un convoglio della ONG americana World Central Kitchen (WCK), che aveva da poco scaricato un carico di cibo nel deposito di Deir al-Balah, è stato colpito da un missile lanciato da un drone israeliano dopo nemmeno due chilometri dal luogo di partenza. I feriti sono stati allora spostati su un secondo mezzo blindato per favorirne il trasporto, ma a una distanza di circa 800 metri dal primo anche quest’ultimo è stato colpito. Un terzo veicolo che si trovava 1,6 chilometri più avanti è stato poi anch’esso fatto saltare. Le sette vittime della strage includono un palestinese e un operatore con doppia cittadinanza americano- canadese, mentre le altre provengono da Australia, Gran Bretagna e Polonia.

L’attacco è stato senza dubbio intenzionale. I mezzi colpiti esibivano inequivocabilmente sul tetto il logo dell’organizzazione a cui appartenevano gli occupanti e, come hanno spiegato i funzionari di WCK, il percorso era stato preventivamente concordato con le forze armate israeliane. L’ex analista della CIA, Larry Johnson, ha aggiunto un dettaglio quasi ovvio alla ricostruzione dei fatti per escludere qualsiasi ipotesi di “errore” o azione isolata di un singolo operatore di droni israeliano.

“Quando le immagini riprese da un velivolo senza pilota identificano un bersaglio”, scrive Johnson, esse vengono osservate e analizzate non solo dal singolo operatore, ma dall’intera squadra incaricata delle operazioni in corso. Soprattutto, l’ordine di fare fuoco viene dato da un ufficiale superiore, ovvero esiste una “catena di comando” che garantisce o dovrebbe garantire il rispetto delle regole di ingaggio stabilite. L’indagine che hanno promesso i vertici militari israeliani, se mai avrà luogo, finirà invece molto probabilmente per scaricare la responsabilità dell’accaduto sul soldato che ha premuto il grilletto, assolvendo i superiori e il sistema criminale che sta presiedendo alla guerra.

È poi evidente che la tesi dell’errore non ha alcuna credibilità alla luce della condotta israeliana. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha fissato a 196 il numero degli operatori umanitari uccisi da Israele a Gaza dal 7 ottobre scorso, anche se alcuni studi indipendenti hanno ipotizzato un numero superiore a 400. Addirittura, 175 di essi facevano parte dello staff dell’agenzia ONU dedicata all’assistenza della popolazione palestinese (UNRWA). La stessa agenzia, bersaglio di una campagna diffamatoria da parte di Israele per la presunta affiliazione di una manciata di suoi dipendenti a Hamas, in una dichiarazione ufficiale ha aggiunto che la maggior parte degli operatori uccisi dalle bombe israeliane sono morti svolgendo il proprio lavoro di natura umanitaria.

La presa di mira sistematica di organizzazioni e operatori umanitari fa parte della strategia israeliana di affamare e liquidare fisicamente la popolazione palestinese, nel quadro appunto della “soluzione finale” alla base dell’aggressione israeliana per occupare tutto il territorio della striscia di Gaza. La relatrice speciale ONU per i territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, ha scritto in un post su X (ex Twitter) a questo proposito: “Sapendo come opera Israele, la mia opinione è che le forze sioniste abbiano ucciso intenzionalmente gli operatori di WCK per convincere le organizzazioni umanitarie a ritirarsi da Gaza e lasciare che i civili [palestinesi] continuino a morire di fame silenziosamente”. WCK ha infatti annunciato la sospensione delle proprie attività nella striscia dopo l’assassinio dei sette operatori.

La nazionalità delle vittime ha fatto comunque più rumore in Occidente degli oltre 33 mila morti stimati a Gaza dal 7 ottobre scorso. I governi americano e britannico hanno chiesto spiegazioni e rilasciato dichiarazioni di condanna nei confronti di Tel Aviv, ma entrambi finiranno come sempre per accettare le giustificazioni israeliane. L’intenzione di Washington resta di assecondare i crimini dello stato ebraico, negando tutte le evidenze che chiunque in ogni parte del mondo può osservare con i propri occhi.

La condotta ripugnante dell’amministrazione Biden si è potuta osservare nuovamente dopo gli ultimi eventi nel corso di una conferenza stampa del portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, John Kirby. A una domanda sulla natura dell’attacco contro il convoglio umanitario di WCK, Kirby ha risposto affermando che il suo governo “non ha rilevato nessuna violazione del diritto internazionale umanitario” da parte di Israele né per quanto riguarda quest’ultimo “incidente” né in qualsiasi altra situazione in questi sei mesi di guerra.

I criminali di sua Maestà

L’indiscutibile natura criminale della campagna militare dello stato ebraico sta facendo emergere anche dal punto di vista legale le responsabilità dei governi che assistono le forze armate sioniste nel genocidio in corso nella striscia di Gaza. In Occidente – Italia compresa– si continua a inviare armi a Israele come se nulla fosse, nonostante a livello di facciata si registrino dichiarazioni più o meno critiche verso Netanyahu. Le giustificazioni hanno solitamente a che fare con il diritto all’autodifesa o con la necessità di rispettare contratti di fornitura sottoscritti prima dell’inizio della guerra.

Nel Regno Unito è esplosa però in questi giorni un’accesa polemica in seguito alla pubblicazione su The Observer di una registrazione audio nella quale un’esponente del Partito Conservatore di governo ha ammesso che Israele sta violando il diritto internazionale, ma Londra, malgrado abbia riconosciuto questa realtà, continua ad assicurare rifornimenti di armi.

Il politico in questione è la deputata “tory”, Alicia Kearns, presidente della commissione Esteri alla Camera dei Comuni. In un evento di partito lo scorso 13 marzo, la parlamentare ha ammesso che il “Foreign Office” aveva ricevuto un parere legale in forma ufficiale nel quale si stabiliva che “Israele ha violato il diritto internazionale umanitario”. Il governo del premier Rishi Sunak, però, lo ha tenuto nascosto e non ha fermato la vendita di armi allo stato ebraico, anche se ciò è illegale in base alla legge britannica.

Nel gabinetto conservatore sembrano esserci pareri discordanti e, soprattutto, crescenti preoccupazioni per una possibile futura imputazione per complicità nel genocidio che sta conducendo Israele. Secondo il Guardian, ad esempio, il ministro degli Esteri David Cameron starebbe spingendo per uno stop alle forniture, ma il primo ministro Sunak si è finora rifiutato di prendere una decisione in questo senso.

Le pressioni su Downing Street stanno comunque aumentando dopo l’esclusiva di The Observer. Mercoledì, più di 600 esperti legali britannici, inclusi accademici ed ex giudici, hanno indirizzato una lettera a Sunak per chiedere l’immediato congelamento dei trasferimenti di armi a Israele, così da contribuire a fermare il genocidio ed evitare che il governo del Regno Unito si esponga ulteriormente alle accuse di complicità nei crimini di Tel Aviv. La missiva, sottoscritta anche da tre ex giudici della Corte Suprema britannica, equivale di fatto a un parere legale e sollecita eccezionalmente anche sanzioni nei confronti del primo ministro, del presidente e del ministro della Difesa di Israele.

Il Regno Unito non è tra i principali fornitori di armi dello stato ebraico, quanto meno non ai livelli di USA e Germania, ma un’eventuale presa di posizione contro l’invio di armi che facilitano la strage di civili palestinesi potrebbe avere un grande peso simbolico e influire sulle posizioni di altri governi occidentali tuttora complici dei massacri.

Lontani dalla tregua

A Gaza, intanto, si continua a registrare morte e distruzione. I negoziati in corso da settimane per arrivare a un cessate il fuoco non stanno dando in pratica nessun risultato. I vertici di Hamas hanno confermato di restare sulle proprie posizioni e di non essere disposti a fare passi indietro sui punti fondamentali della loro proposta. In primo luogo, il movimento di liberazione che controlla la striscia chiede una tregua permanente e non provvisoria, poiché in quest’ultimo caso Israele avrebbe facoltà di ricominciare la guerra con ancora meno vincoli una volta ottenuta la liberazione dei propri cittadini ancora prigionieri.

Hamas intende ottenere anche il ritiro completo delle forze sioniste da Gaza, il ritorno dei rifugiati alle loro abitazioni, l’ingresso senza impedimenti di tutti gli aiuti umanitari necessari, l’avvio della ricostruzione e un accordo equo sullo scambio dei prigionieri. Il governo del Qatar, che con l’Egitto agisce da mediatore tra le due parti, ha rivelato mercoledì che l’ostacolo principale a un’intesa sul cessate il fuoco è il rifiuto da parte del governo Netanyahu ad accettare il ritorno dei civili palestinesi nelle loro abitazioni. Questa fermezza da parte di Israele conferma come l’obiettivo di fondo della campagna militare sia appunto il genocidio, ovvero l’evacuazione definitiva, se non l’eliminazione fisica, di tutta la popolazione palestinese della striscia di Gaza.