Con l’intervento dei legali del governo di Washington, si sono concluse mercoledì le udienze del processo per l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti, dove potrebbe andare incontro a una condanna fino a 175 anni di carcere per avere rivelato al mondo i crimini dei governi e dei servizi di intelligence americani. Il collegio dei giudici dell’Alta Corte di Londra dovrà ora stabilire se il 52enne giornalista australiano avrà diritto a presentare ricorso contro una sentenza precedente che aveva accolto la richiesta americana. La decisione verrà comunicata però tra alcuni giorni o settimane e potrebbe essere l’ultima occasione per Assange di evitare l’estradizione. In caso di verdetto sfavorevole, resterebbe sulla carta una possibile istanza alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, ma sono in molti a temere che, in questo caso, il governo di Londra potrebbe mettere in fretta e furia Assange su un volo per gli USA senza lasciare il tempo ai suoi avvocati di ricorrere al tribunale con sede a Strasburgo.
Risulta quasi impossibile tenere il conto delle irregolarità e che hanno caratterizzato il procedimento contro Assange, di natura spudoratamente politica e vendicativa. Nel grado di giudizio precedente, le esplosive questioni relative al comportamento illegale del governo e della giustizia degli Stati Uniti e del Regno Unito, così come ai particolari della persecuzione del fondatore di Wikileaks, erano state escluse deliberatamente dal giudice incaricato del caso. Il dibattimento era stato incentrato quasi esclusivamente sulle condizioni di salute di Assange, che avevano inizialmente determinato la bocciatura dell’estradizione negli USA, per poi essere approvata in seguito alle assurde rassicurazioni delle autorità americane.
Nella prima giornata di udienze nella giornata di martedì, il lungo intervento dei legali della difesa aveva invece finalmente esposto i metodi impiegati da Washington e le ripetute violazioni dei più basilari diritti democratici del loro assistito. In alcuni casi, i due giudici dell’Alta Corte di Londra erano sembrati addirittura sorpresi nel venire a conoscenza di alcuni dettagli del caso.
Anche dal punto di vista procedurale, l’accusa ha fatto ricorso a pratiche scorrette, come la manipolazione e la sottrazione di prove, che, in collaborazione coi giudici britannici, avevano l’obiettivo di facilitare l’estradizione di Assange. Ad esempio, la giustizia USA aveva da tempo lasciato cadere la teoria del complotto con Chelsea Manning per penetrare i sistemi informativi governativi, ma nelle carte del procedimento in Gran Bretagna questa accusa è rimasta in piedi.
Stesso discorso vale per la tesi mai provata dei danni che le rivelazioni di WikiLeaks avrebbero causato a informatori o collaboratori dei servizi segreti americani, più volte smentita anche nelle aule di tribunale, tra cui durante la corte marziale di Manning. Un ulteriore esempio è la disputa artificiosa sulla possibilità o meno di approvare l’estradizione negli USA per reati politici. Questa eventualità è categoricamente esclusa dal trattato di estradizione tra Stati Uniti e Regno Unito, ma per l’accusa sarebbe contemplata nella successiva legge del parlamento di Londra che ne regola l’implementazione.
Soprattutto la questione dell’assistenza fornita a Manning nella sottrazione di documenti riservati del Pentagono appare di cruciale importanza nella vicenda Assange. Il numero uno di WikiLeaks avrebbe aiutato l’ex analista dei servizi militari a nascondere la propria identità mentre accedeva al materiale riservato, ma questa ipotesi era già stata scartata dalle indagini forensi nel corso del processo Manning. Gli scambi di messaggi tra Manning e membri di WikiLeaks sono avvenuti inoltre dopo che i documenti erano stati trasferiti all’organizzazione di Assange.
Questi dettagli sono stati tenuti fuori dal dibattimento a Londra, proprio perché avrebbero fatto saltare il disegno dell’accusa. Anche prendendo per buona la tesi americana che la condotta di Manning e Assange rappresenta un reato, mentre il rapporto segreto tra un giornalista e le sue fonti dovrebbe essere un principio democratico acquisito, l’assenza di prove che dimostrino che ciò sia accaduto rende Assange il destinatario passivo dei documenti riservati, facendo cadere i presunti reati perseguibili secondo il famigerato “Espionage Act”.
Alla valanga di circostanze a favore di Assange, va aggiunta quella che lo scagionerebbe dall’accusa di avere pubblicato su WikiLeaks documenti riservati senza nascondere i nomi delle fonti. Ciò era però avvenuto dopo che moltissimi siti, tra cui cryptome.org e The Pirate Bay, lo avevano già fatto. WikiLeaks aveva quindi solo “ripubblicato” i documenti nella versione integrale e questo fatto esclude una possibile incriminazione in base all’Espionage Act. In precedenza, al contrario, Assange aveva svolto un dettagliatissimo lavoro per espungere dalle carte segrete del governo USA tutti i nomi di funzionari, agenti e fonti di intelligence che avrebbero potuto subire danni in seguito alla pubblicazione.
Il ricorso da parte degli Stati Uniti a questa legge americana del 1917 per perseguire Assange è già di per sé una manovra senza senso. Come spiega il suo stesso nome, la legge si applica appunto a “spie”, ovvero a cittadini americani che operano in collaborazione con i nemici di Washington, ad esempio passando loro informazioni o documenti riservati. Assange è un cittadino australiano e non si trovava in territorio americano quando ha pubblicato i documenti riservati. Inoltre, il suo lavoro di giornalista esclude qualsiasi implicazione spionistica e, in ogni caso, il materiale segreto non è stato consegnato a nemici dell’America ma è stato pubblicato a beneficio del pubblico di tutto il mondo.
Va anche ricordato che Assange sarà consegnato nelle mani di un governo che ha cercato concretamente di rapirlo e assassinarlo prima che la polizia britannica lo trascinasse a forza fuori dall’ambasciata dell’Ecuador nella primavera del 2019. Questa sola circostanza avrebbe dovuto far scattare l’immediata scarcerazione di Assange, oltre all’incriminazione di coloro che, ai vertici del governo di Washington, avevano tramato per la sua eliminazione fisica.
Gravemente invalidante per il procedimento di estradizione era anche la possibilità, sollevata dai magistrati inquisitori dello stato USA della Virginia, dove Assange finirà a processo, di privare quest’ultimo dei diritti garantiti dal Primo Emendamento alla Costituzione americana, quelli legati cioè alla libertà di espressione. La ragione di ciò sarebbe la cittadinanza non americana di Assange, ma la privazione di questo diritto è una violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, di cui la Gran Bretagna è firmataria, ed escluderebbe di per sé il trasferimento negli Stati Uniti.
Le condizioni di salute di Assange sono state infine anch’esse al centro dei dibattimenti nei vari gradi di giudizio. A gennaio 2021, l’estradizione era stata respinta per il rischio concreto che, una volta in isolamento in un carcere di massima sicurezza negli USA, Assange avrebbe potuto suicidarsi. Il governo americano aveva presentato ricorso e garantito che sarebbero state adottate tutte le misure necessarie a salvaguardare la salute di Assange. Il ricorso era stato quindi accolto a ottobre dello stesso anno.
Le valutazioni sullo stato del fondatore di WikiLeaks erano state fatte però solo sulle condizioni psicologiche, mentre non sono mai state prese in considerazione quelle fisiche, nettamente peggiorate con la detenzione nel carcere di Belmarsh. Proprio nel 2021 Assange era stato colpito da un “mini-ictus” e, in seguito, da un ictus vero e proprio. Altre patologie sono poi insorte sempre a causa delle condizioni in cui è costretto a vivere da oltre un decennio, ma nel procedimento di estradizione sono state trascurate. Anche in questo caso non si tratta di un dettaglio insignificante, perché esistono precedenti di estradizione negata negli Stati Uniti per queste ragioni, come nel caso dell’attivista e presunto hacker Lauri Love.
Altro capitolo degli abusi giudiziari subiti da Assange è la scelta dei giudici che hanno presieduto le varie udienze di estradizione e deciso della sua sorte. Una dei giudici nei dibattimenti iniziali, Lady Arbuthnot, è la moglie di un ex politico di spicco del Partito Conservatore con interessi economici legati al ministero degli Esteri britannico. Il giudice Ian Burnett è invece un amico fraterno da 40 anni dell’ex ministro conservatore Alan Duncan, che nel 2019 aveva svolto un ruolo di primo piano nel rapimento dall’ambasciata ecuadoriana di Assange e, durante un intervento in parlamento nel 2018, aveva definito quest’ultimo un “piccolo miserabile verme”.
Le udienze di questa settimana sono state presiedute dai giudici Victoria Sharp e Jeremy Johnson, entrambi legati agli ambienti politici e dei servizi di sicurezza britannici. La prima viene da una famiglia molto vicina al Partito Conservatore e, recentemente, aveva ordinato alla giornalista Carole Cadwalladr di pagare un risarcimento di un milione di sterline in un processo per diffamazione intentato dall’imprenditore e finanziatore della campagna pro-Brexit, Arron Banks.
Johnson ha da parte sua ricoperto svariati incarichi di consulente legale per i servizi segreti esteri britannici (MI6) e per il Ministero della Difesa. In questa veste, il giudice aveva avuto spesso accesso a informazioni governative top-secret. Nel 2016, era stato nominato a un incarico simile per il caso del militante islamista libico Abdel Hakim Belhaj, che aveva accusato gli uomini del MI6 di averlo rapito nel 2004 in Thailandia assieme alla moglie incinta e trasferito clandestinamente nel suo paese di origine. WikiLeaks e Assange, va ricordato, avevano avuto occasione di pubblicare documenti segreti che documentavano le cosiddette “rendition” ordinate dai governi di Washington e Londra nel quadro della “guerra al terrore”.