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Le circostanze senza precedenti che stanno agitando il panorama politico dell’America sembrano andare di passo con l’intensificarsi della crisi che attraversa la sua classe politica e un sistema che di democratico non ha quasi più nemmeno l’apparenza. Un’altra tappa di questa parabola discendente è la sentenza di martedì della Corte Suprema del Colorado che ha escluso l’ex presidente Trump dalle elezioni primarie del Partito Repubblicano in questo stato, programmate per il 5 marzo prossimo.

Il tribunale ha ribaltato un verdetto di un giudice distrettuale sulle responsabilità di Trump nell’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021, basandosi su un’interpretazione differente del contenuto ambiguo della Sezione 3 del 14esimo Emendamento alla Costituzione americana. Questo dispositivo, risalente al periodo successivo alla Guerra Civile, vieta a coloro che hanno complottato per il rovesciamento del governo di assumere cariche pubbliche.

 

Le responsabilità di Trump nella fallita “insurrezione” di quasi tre anni fa erano state riconosciute dallo stesso tribunale distrettuale del Colorado, ma la sentenza era stata comunque favorevole all’ex inquilino della Casa Bianca. Il giudice aveva infatti ritenuto che la definizione di “officer” (funzionario) degli Stati Uniti, citata dal 14esimo Emendamento, non va applicata alla carica di presidente. Oltre agli “officers”, la norma si riferisce anche ai membri del Congresso, di tutte le assemblee legislative statali e ai funzionari dell’apparato di governo o del sistema giudiziario di qualsiasi stato americano.

Per quattro giudici su sette della Corte Suprema statale del Colorado, al contrario, nella definizione di “officer” rientra anche il presidente degli Stati Uniti. Da qui l’ordine di cancellare il nome di Trump dalle schede che gli elettori delle primarie in Colorado avranno tra le mani nel giorno del “Super Martedì”. In realtà, la sentenza è stata sospesa fino al 4 gennaio, cioè il giorno prima della scadenza ultima per la ratifica ufficiale, da parte della autorità statali, dell’elenco dei partecipanti alle primarie.

La sospensione anticipa la risoluzione finale della diatriba giudiziaria davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti, a cui infatti i legali di Trump intendono ricorrere. Quello che appare dunque come un tecnicismo legale, che il più alto tribunale USA dovrà chiarire definitivamente, avrà implicazioni politiche enormi. Il parere della Corte Suprema influenzerà le decine di cause simili contro Trump che in altri stati sono state presentate, alcune delle quali già respinte.

I risvolti politici pervadono anche il lavoro dei tribunali che si occupano del caso. Tutti e sette i giudici della Corte Suprema del Colorado sono stati nominati da governatori democratici, mentre la Corte Suprema degli Stati Uniti ha una consolidata maggioranza (6-3) di giudici (ultra-)conservatori e tre di questi ultimi sono stati nominati dallo stesso Trump durante il suo mandato.

Un esito favorevole all’ex presidente non è comunque così scontato. Ambienti repubblicani e conservatori vedono anch’essi con preoccupazione un secondo mandato di Trump, principalmente per gli effetti dirompenti che potrebbe avere sul ruolo internazionale degli USA. Già dopo le elezioni del 2020, infatti, la Corte Suprema a maggioranza conservatrice aveva respinto tutti i ricorsi presentati dai legali di Trump in merito ai presunti brogli che, a detta del presidente uscente, avevano consegnato la vittoria a Joe Biden.

La sentenza di martedì nel Colorado, oltre a non avere precedenti nella storia americana, è altamente controversa, al di là del ruolo effettivo di Trump nei fatti del 6 gennaio 2021. È pratica comune ad esempio che la definizione di “officer” riguardi funzionari nominati invece che eletti. Le opinioni contrarie al verdetto scritte dai tre giudici in minoranza hanno invece messo l’accento sulla complessità della questione, che la legislazione elettorale del Colorado non è in grado di sciogliere in via definitiva.

Di particolare rilievo è stato infine il “dissenso” di uno dei tre giudici schieratisi a favore di Trump. Questa opinione contraria a quella della maggioranza si basa sul fatto che l’ex presidente, quando anche fosse responsabile del reato attribuitogli, non è stato giudicato colpevole, almeno finora, da nessun tribunale. C’è in effetti una qualche amara, nonché appropriata, ironia nel giudicare Trump non idoneo alla massima carica elettiva americana per avere attentato all’ordine costituzione democratico attraverso una sentenza che non si ricollega a un precedente “giusto processo” che lo abbia riconosciuto colpevole di questo reato.

Quello che la cronaca politico-giudiziaria di questa settimana negli USA ribadisce è in ogni caso l’invadenza, come mai era accaduto in passato, dei guai legali dei principali candidati alla Casa Bianca nel processo elettorale. Trump, com’è noto, deve far fronte a svariati procedimenti, due dei quali entreranno nel vivo proprio in concomitanza con l’inizio delle primarie a gennaio. Anche Biden ha la sua parte di grattacapi, con l’incriminazione del figlio Hunter e, legato a quest’ultimo caso, il procedimento di impeachment alle prime battute alla Camera dei Rappresentanti su iniziativa della maggioranza repubblicana.

Sempre alla Corte Suprema di Washington è in attesa di giudizio anche un altro caso che riguarda Trump, quello cioè della sua eventuale immunità in relazione alle accuse formulate per la tentata insurrezione del 6 gennaio 2021 dal “consigliere speciale” del dipartimento di Giustizia che ha indagato sui fatti, Jack Smith.

Intanto, come ampiamente previsto, la notizia del verdetto della Corte Suprema del Colorado ha fornito un nuovo assist al clan di Trump per andare all’attacco politicamente di Biden e del Partito Democratico. Un membro dello staff elettorale dell’ex presidente ha riassunto in un’intervista a Politico la linea d’attacco trumpiana per capitalizzare al massimo la sentenza. Quest’ultima è stata definita una “follia”, in quanto emessa da un “mucchio di giudici di sinistra non eletti”, in risposta a una causa intentata da “un’organizzazione finanziata da [George] Soros”.

Il caso del Colorado innescherà e ha in parte già innescato alcune dinamiche ugualmente prevedibili. Una è appunto il solito tentativo di strumentalizzare la “persecuzione” del sistema ai danni di Trump, non solo con lo scopo di infiammare la sua base elettorale, ma anche per lanciare una campagna ad hoc di finanziamenti elettorali. Facilmente ipotizzabile era poi la presa di posizione a favore di Trump di tutti i candidati alla nomination repubblicana. Anche quelli in teoria più ostili all’ex presidente hanno denunciato la sentenza e si sono detti favorevoli alla presenza del nome dell’ex presidente sulle schede elettorali. Questa sorta di riflesso condizionato a difesa di Trump ribadisce il dilemma irrisolvibile degli altri candidati: obbligati a distinguersi dal favorito per trovare un qualche spazio politico praticabile ma impossibilitati ad attaccarlo per non alienarsi una base repubblicana in maggioranza schierata per l’ex presidente.

La candidatura di Donald Trump alla Casa Bianca resta dunque tossica per la politica americana e il suo ritorno sulla scena da protagonista assoluto è il sintomo di una patologia letale che da tempo sta lacerando il sistema “democratico” d’oltreoceano. Il rischio di un secondo mandato, peraltro eguagliato da un eventuale Biden bis, si intreccia al tentativo di golpe del gennaio 2021, nonché a progetti per liquidarlo politicamente attraverso sentenze di tribunali, a rigurgiti fascistoidi e agli sforzi, da parte dei democratici, per salvaguardare il Partito Repubblicano dalla deriva trumpiana.

Lo scontro all’interno dell’apparato di potere americano, di cui la guerra giudiziaria contro Trump ne è una parte, non si gioca comunque sui valori democratici e costituzionali, quanto sulle scelte fondamentali che dovranno decidere il futuro sempre più incerto della declinante prima potenza economica del pianeta. Sia sul fronte domestico, con tensioni sociali esplosive, sia su quello internazionale, segnato da un fallimento strategico dopo l’altro e dall’ascesa irresistibile di rivali come Cina e Russia.

In tutto questo, cresce a dismisura il rischio di una soluzione autoritaria, favorita in primo luogo dall’abbandono anche formale della causa progressista da parte del Partito Democratico. Giusto per ricordare il livello di pericolo che incombe sugli Stati Uniti, il favorito numero uno per le presidenziali del prossimo anno – Donald Trump appunto – in un recente comizio è tornato nuovamente a utilizzare senza il minimo scrupolo la retorica hitleriana, attaccando gli immigrati perché colpevoli di “avvelenare il sangue dell’America”.