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L’obiettivo primario di Israele nella campagna criminale in corso a Gaza è l’espulsione totale della popolazione palestinese dalla striscia. Non sono soltanto i proclami dei leader del regime sionista e le azioni delle sue forze armate in queste settimane di guerra a dimostrarlo, ma anche alcuni documenti pubblicati recentemente da organi del governo e da enti ad esso molto vicini. L’appropriazione totale delle terre palestinesi si basa sia su teorie al limite del patologico basate sui testi sacri sia sul principio della forza pura e semplice che da decenni viene favorito dall’appoggio garantito allo stato ebraico dagli Stati Uniti e dal resto delle “democrazie” occidentali.

All’interno del regime di Netanyahu sta circolando almeno un piano per portare a termine la pulizia etnica di Gaza e l’occupazione definitiva di questo territorio da parte di Israele. Il giornale israeliano Mekovit ha infatti rivelato nei giorni scorsi il contenuto di uno studio realizzato dal ministero dell’Intelligence, nel quale si raccomanda il trasferimento forzato dei circa 2,3 milioni di palestinesi residenti a Gaza.

 

Il documento porta la data del 13 ottobre e avanza alcune proposte per facilitare un’operazione che, a paragone, renderebbe la Nakba del 1948 poco più di un crimine trascurabile. Sfruttando la guerra in corso e in previsione del suo epilogo, Israele dovrebbe cioè valutare come opzione preferibile lo spostamento dei palestinesi di Gaza nella penisola del Sinai, in Egitto. L’evacuazione dovrebbe essere seguita dalla creazione di tendopoli o nuove città per ospitare i profughi, da isolare in territorio egiziano grazie a una zona di sicurezza di svariati chilometri. Ovviamente, nessuno dei palestinesi espulsi dalle loro case e dalle loro terre avrebbe facoltà di tornare a Gaza né di avvicinare i confini israeliani.

Il piano in questione dovrebbe essere implementato in varie fasi. La prima consiste nel trasferimento della popolazione di Gaza verso il sud della striscia, così da lasciare mano libera ai bombardamenti israeliani nella porzione settentrionale, ufficialmente contro le postazioni di Hamas. La seconda fase scatterebbe invece con l’invasione di terra e la progressiva occupazione del territorio di Gaza in parallelo alla distruzione della rete di tunnel sotterranei costruiti dalla resistenza palestinese.

Il documento spiega tra l’altro che un fattore decisivo dovrebbe essere la salvaguardia delle strade dirette verso sud, così da consentire l’evacuazione dei civili palestinesi verso l’Egitto attraverso il valico di Rafah. Questa notazione risulta tragicamente ironica, visto che il regime di Tel Aviv, già nelle prime fasi della campagna militare in corso, aveva sollecitato i palestinesi a recarsi verso il sud della striscia, per poi bombardare i profughi stessi in cerca di rifugio oltre il confine con l’Egitto.

In parallelo alle operazioni militari, il ministero dell’Intelligence israeliano consiglia una campagna che convinca i palestinesi di Gaza ad abbracciare il piano e, in sostanza, a rinunciare alla loro terra. Tra razzismo e riferimenti escatologici, tradizionalmente usati dal sionismo per giustificare qualsiasi crimine contro i palestinesi, gli autori del documento spiegano che gli abitanti di Gaza devono essere convinti che “Allah ha fatto in modo che perdessero la loro terra a causa [delle azioni] della leadership di Hamas”. Per questa ragione, “non esiste altra scelta che trasferirsi altrove con l’aiuto dei vostri fratelli musulmani”.

La criminalità del progetto è tale anche agli occhi dei suoi ideatori che si renderebbe necessaria una campagna di pubbliche relazioni, peraltro altamente improbabile, per promuovere l’espulsione dei palestinesi di Gaza tra i governi occidentali, in modo da evitare ostilità nei confronti di Israele o che l’immagine dello stato ebraico possa essere danneggiata. Ciò che restava dell’apparenza di “democrazia” del regime sionista è evidentemente crollata sotto le macerie della distruzione di Gaza, ma l’illusione di potere portare a termine senza ripercussioni il piano criminale rivelato dal giornale Mekovit dà l’idea del senso di impunità praticamente assoluto percepito dalla classe dirigente israeliana.

Infatti, prosegue il testo del documento, la deportazione dei residenti della striscia deve essere presentata come una “necessità umanitaria” e quindi appoggiata dalla comunità internazionale. Questa tesi serve chiaramente a legittimare la strage di civili già in corso a Gaza, visto che l’espulsione dei palestinesi dovrebbe essere giustificata come una misura in grado di limitare le vittime dei bombardamenti. Un numero di morti civili che, invece, aumenterebbe con la permanenza a Gaza dei suoi residenti.

Come di consueto, la complicità degli Stati Uniti nei crimini di Israele dovrebbe risultare decisiva. Il piano prevede che Washington faccia pressioni sull’Egitto per accettare i palestinesi cacciati da Gaza, mentre altri paesi occidentali, in particolare Grecia, Spagna e Canada, dovranno essere incoraggiati a dare asilo a un certo numero di profughi.

Un altro documento dai contenuti simili ed elaborato dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso è quello di un “think tank” diretto dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale israeliano, Meir Ben Shabbat. In questo caso, il piano di epurazione di Gaza pretende di concentrarsi soprattutto sugli “aspetti economici”. Il suo autore, Amir Weitman, parla della guerra in corso come di una “occasione unica” per evacuare la striscia e, di conseguenza, per “riabilitare” i palestinesi di Gaza in Egitto. Lo studio prende in considerazione anche le implicazioni in termini di interessi strategici dell’espulsione che, a detta dell’autore, dovrebbero allinearsi a quelli dei paesi coinvolti, dall’Egitto all’Arabia Saudita, oltre che a Israele e Stati Uniti.

In realtà, per i paesi arabi vicini – Egitto e Giordania – la soluzione proposta dallo stato ebraico rappresenta una vera e propria linea rossa da non oltrepassare, sia per ragioni di sostenibilità economica sia per l’esplosione sociale che causerebbe tra popolazioni unanimemente solidali con la causa palestinese. In previsione di una futura espulsione dei palestinesi anche dalla Cisgiordania, ad esempio, il governo di Amman, che ha sottoscritto un trattato di pace con Tel Aviv ed è un alleato di ferro degli USA, ha recentemente avvertito Israele che il trasferimento forzato dei palestinesi costituirebbe niente meno che una “dichiarazione di guerra”.

L’occupazione totale dei territori palestinesi e l’eliminazione da essi dei suoi abitanti, in una sorta di “soluzione finale”, non è un obiettivo emerso con la guerra in corso, ma è intrinseco nelle politiche genocide sioniste fin dalla fondazione dello stato ebraico. A proposito di Gaza e dei palestinesi che vivono nella striscia, il direttore della testata on-line Middle East Eye, David Hearst, ha ricordato un episodio riferito da tre politici sunniti iracheni della provincia di Anbar.

Questi ultimi raccontarono che, durante un soggiorno nel corso del 2022 in un lussuoso resort del Mar Morto, furono “corteggiati” da funzionari di governo di Israele che intendevano “offrire” il trasferimento nella stessa provincia di Anbar di 2,3 milioni di palestinesi, ovvero il numero di abitanti della striscia di Gaza. Il territorio in questione dentro i confini dell’Iraq rappresentava d’altra parte una soluzione ideale per il fatto che ha una popolazione molto ridotta pur avendo ingenti risorse del sottosuolo non sfruttate. Inoltre, l’arrivo dei palestinesi di Gaza poteva bilanciare gli equilibri settari tra sunniti e sciiti in Iraq, attualmente favorevoli numericamente a questi ultimi.

L’ossessione genocida del regime sionista e la “proposta” radicale di espellere tutta la popolazione palestinese dalla striscia di Gaza, così come dagli altri territori occupati, spiega ancora Hearst, dipende anche dalle differenti dinamiche demografiche di israeliani e palestinesi. Avendo ormai abbandonato l’ipotesi dei “due stati”, ciò che resta oggi è la soluzione di un “unico stato”, ovvero un regime di apartheid in cui gli arabi israeliani sono penalizzati ed emarginati virtualmente in ogni ambito. Anche questo stato di cose non garantisce però la supremazia ebraica nel lungo periodo, essendo i tassi di natalità molto diversi tra ebrei e palestinesi. L’unica alternativa resta dunque l’espulsione forzata da Israele e dai territori occupati di milioni di palestinesi.

Questo piano israeliano appare del tutto coerente con un regime che sta bombardando deliberatamente abitazioni e ospedali e ha già massacrato più di ottomila palestinesi, di cui quasi la metà bambini. Gli ostacoli per la sua implementazione restano tuttavia considerevoli e dipendono in larga misura dalla repulsione suscitata a livello internazionale, tranne che nei governi occidentali, dai fatti di queste settimane, così come dalla storia dell’oppressione palestinese.

Proprio l’opposizione delle popolazioni di tutto il mondo alla barbarie sionista agisce da freno sullo sponsor principale di Tel Aviv, cioè gli Stati Uniti, dove la “soluzione finale” auspicata dai leader dello stato ebraico viene considerata troppo esplosiva. Malgrado l’appoggio totale alla strage di civili in corso a Gaza, l’amministrazione Biden è tornata in questi giorni a rilanciare l’idea dei “due stati” e, appunto, a riconoscere almeno a livello formale la legittimità di quello palestinese.

Per quanto vuoto sia l’impegno di Washington e ancora lontana un’entità statale realmente indipendente per il popolo palestinese, il sostegno anche solo esteriore alla soluzione dei “due stati” comporta necessariamente il rifiuto dei piani di espulsione descritti in precedenza. Che poi ciò si traduca in una prospettiva praticabile per la causa palestinese è tutta un’altra questione, come dimostrano tragicamente le immagini di distruzione, per mano di Israele e grazie alla copertura americana, che continuano ad arrivare dalla striscia di Gaza.