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L’ultima fase del primo mandato di Donald Trump sembra complicare non poco la ormai prossima campagna elettorale che dovrebbe eleggerlo per il suo secondo mandato. Nell’ultimo mese, gli Stati Uniti hanno perso ulteriori 20,5 milioni di posti di lavoro a seguito della crisi generata dalla pandemia di corona virus, arrivando così al 15% di disoccupazione certificata. Un record negativo che non si vedeva dalla crisi del 1929. La sciagurata gestione della crisi pandemica ha portato allo scoperto il nervo vero di questa amministrazione: l’ignoranza abissale dei suoi componenti. Le ripetute figuracce del presidente, ultima quella sul cloro da iniettarsi come cura per il Covid 19, ne sono la rappresentazione. Una amministrazione con responsabilità gravissime nella crisi generale di sistema e in quella della governance internazionale.

Riuscire a peggiorare tutti gli indicatori non era semplice, ma Trump c’è riuscito. Si attendeva un contenimento del deficit commerciale, pur in presenza di un maggior debito estero, ma così non è stato: aumentati entrambi a livelli mai conosciuti e mancata riduzione del debito estero. Ma sarebbe sbagliato ritenere che la condizione di seria difficoltà nella quale versano gli USA sia solo figlia di questi ultimi 4 anni.

Certo è che l’arrivo di Trump ha esacerbato ulteriormente il fallimento di un modello darwiniano ed escludente. Nel Paese dove vive il 41% delle persone più ricche dell’intero pianeta, un terzo della popolazione (105.303.000 di persone) è senza un tetto sicuro e fatica a far fronte alle necessità. Un milione e mezzo di ragazzi non hanno accesso all’istruzione secondaria. Sono 14 milioni gli statunitensi privi di qualunque assicurazione sanitaria che fino all’arrivo di Trump potevano almeno utilizzare l’Obamacare, il sistema pubblico riformato da Barak Obama. Ora il Medicare, privato dei fondi, è l’ombra di quel pur minimo che fu e non vi sono margini di ripensamento, nemmeno di f4onte a una pandemia che rischia di produrre oltre trecentomila morti per carenze sanitarie.

I fondi pensioni, le assicurazioni e Big Pharma governano il welfare e difficilmente ci si può appellare giuridicamente alle leggi di tutela della salute: gli Stati Uniti hanno un Diritto fintamente liberale, in realtà a disposizione dei più ricchi e dei loro averi che viene supportato da un sistema giuridico al servizio del più forte. Il sistema del paese più ricco produce sempre più poveri e sempre più ingiustizie. Ovvie ripercussioni sulla devianza: il 25% dei detenuti di tutto il mondo è statunitense e il numero dei malati psichiatrici è il più alto del mondo in percentuale con la popolazione, così come quello dei tossicodipendenti in un paese che si fregia del triste primato nella domanda mondiale di droga.

L’elemento determinante nel valutare il declino risiede qui: quarantotto milioni di poveri su 250 milioni di persone rappresenta un dato proporzionale che gli analisti internazionali sono soliti incontrare nell’esame dei paesi emergenti o in via di sviluppo, non negli Stati Uniti. I quali non essendo più il paese leader dell’Occidente da un punto di vista economico, meno che mai tecnologico, puntano su prepotenza politica, sanzioni verso i competitor e supremazia militare per mantenersi saldi in una posizione di dominio. Non è un caso che protervia e arroganza imperiale, disprezzo del Diritto Internazionale e delle altrui sovranità siano cresciuti negli ultimi anni: aumentano in proporzione alle difficoltà di tenere in piedi un modello che ha fallito in ogni suo aspetto.

 

La politica estera
Il piano internazionale presenta problemi non meno difficili di quelli interni e i due aspetti sono, nel caso statunitense, completamente intersecati. La questione è ideologica, politica ed economica al tempo stesso. Si muovono guerre per conquistare mercati e dominio geopolitico, aspetti vitali per la sopravvivenza del modello, perché le risorse delle quali gli USA hanno bisogno (ma delle quali non dispongono) vanno prese in altri paesi. Perché questo accada servono guerre e dunque è necessario un apparato bellico all’altezza. Le sei flotte navali e le 725 basi militari con 300.000 soldati sparse per il mondo servono a garantire che una popolazione pari al 4,6% del mondo possa continuare a consumare il 60% delle risorse disponibili e che per giunta non debba pagarle.

Il ricorso alla guerra e alla destabilizzazione internazionale come strumento principale della strategia politica è sempre stato un elemento costante della Casa Bianca e certo Trump - che pure aveva promesso un disimpegno militare internazionale in favore di una maggiore attenzione ai temi economici interni - ha dato il suo contributo al modello. L’aumento del 5,6% del budget della Difesa rispetto al 2018 si riverbera in una ampliamento e rafforzamento della minaccia militare, per quanto sia evidente il fallimento della strategia di contenimento verso Cina e Russia.

Alcune iniziative della presidenza Trump sono risultate particolarmente significative nel quadro ridisegnato del modello di governance globale USA. Manovre militari nel cuore dell’Europa e politiche provocatorie verso la Russia, attivazione della flotta nei Caraibi e promozione di colpi di stato nei paesi che non controllano in America Latina, rottura degli accordi per il disarmo nucleare e nuove iniziative contro l’Iran,  presidio rinforzato del Mar della Cina e inutili minacce alla Corea del Nord.

Se la presenza nel Mar della Cina vorrebbe contenere la crescita cinese, nelle navi da guerra nel Mar dei Caraibi c’è una componente ideologica che denuncia l’intolleranza verso i sistemi a ispirazione socialista. Comprensibilmente: la sovranità nazionale dei singoli paesi e l’integrazione continentale sono per Washington il peggiore degli scenari: disegnano un modello socio-politico antagonista al suo e impediscono il saccheggio degli Stati Uniti delle ricchezze marittime, di suolo, sottosuolo e di biodiversità.

Aver vinto in Bolivia, Ecuador, Brasile e Uruguay non rappresenta un grande risultato: Messico e Argentina hanno virato a sinistra e Venezuela, Cuba e Nicaragua restano spine nel fianco della Casa Bianca. In Siria è stata persa una guerra politica e militare (l’ennesima), in Irak non si riesce a governare e in Afghanistan lo stallo militare gioca a favore dei Talebani.

La fase succedutasi alla caduta del campo socialista, dove il dominio unipolare si era stabilito, è finita. La crescita imperiosa di Cina e Russia è si esprime sul terreno economico-politico e militare e l’alleanza tra i due giganti mette gli USA in una condizione oggettivamente diversa da quella del post 1999. E’ in gioco il passaggio dall’unipolarismo al multipolarismo, ovvero una gestione del governo del mondo che cessa di essere il palcoscenico dove va in scena l’arbitrio assoluto statunitense e diventa responsabilità dell’insieme della comunità internazionale,.

Ma la sfida preminente è con Pechino e Mosca. Washington vede la Cina come una potenza economica ormai irraggiungibile e la Russia come una potenza militare letale. Ed è proprio il futuro a spaventare maggiormente, perché nello sviluppo delle tecnologie di punta la Cina supera gli Stati Uniti, indietro nella tecnologia del futuro - il 5G - nello studio e nell’applicazione dell’intelligenza artificiale, nella virologia e nell’epidemiologia, nell’informatica e nella tecnotronica. Le strategie della CIA non bastano: non saranno le crisi politiche innescate dagli USA, come quella di Hong Kong, a ridurre il livello del gap.

In una recente conversazione con Trump, l’ex presidente statunitense Jimmy Carter ha detto che il vantaggio tecnologico ed economico che la Cina ha cumulato verso gli USA è determinato soprattutto dall’assenza di guerre nello sviluppo politico cinese, mentre gli Stati Uniti hanno speso oltre 30.000 miliardi di dollari per sostenere le proprie ambizioni di dominio.

Correnti di pensiero neocons sostengono come questa fase sia l’ultima nella quale gli Stati Uniti possono sferrare un duro colpo militare alla Cina in funzione di contenimento strategico, ma l’analisi militare non conferma questa possibilità. E anche aver riarmato il Giappone non sposterà in alcun modo le mire di Pechino sulla sua zona di influenza né la determinazione a difenderla. Pechino aspira con molta forza ad un ruolo di gigante geopolitico e incrementa la sua influenza in Europa, Africa e America Latina ed ha chiaro come con Washington non funzioni altro linguaggio se non quello della forza. Non a caso la Cina è oggi il secondo paese al mondo per investimenti nella Difesa, con un incremento del 5,1% rispetto al 2018.

La Russia, dal canto suo, ha ritrovato identità politica, forza industriale e, soprattutto, una crescita economica derivata dallo sfruttamento delle sue risorse energetiche e dall’utilizzo della leva finanziaria. Una crescente stabilità politica ed un forte sviluppo economico hanno sostenuto il ritorno ad una dimensione militare di primissimo livello che ha permesso la sua crescente influenza politica internazionale. Cecenia, Georgia, Crimea, ma soprattutto in  Siria (oltre al ruolo crescente che gioca in Centro e Sud America) Putin ha imposto con la forza equilibri politici convenienti per Mosca e ha dimostrato di non escludere il terreno militare quando si tratta di difendere i suoi obiettivi strategici.

L’alleanza tra i due giganti euroasiatici è per Washington il peggiore degli incubi e se la Cina andrà avanti con la Russia e gli altri paesi Brics (e anche alcuni europei) nel progetto di rafforzamento della nuova banca internazionale di investimenti che opera in yuan, la fine del dollaro quale divisa unica per gli scambi internazionali diverrà cuore dell’agenda politica dei prossimi anni. Il che porterebbe alla fine di Bretton Woods e al declino irreversibile statunitense. La domanda ormai riguarda il quando e non il se.

Il crescente declino non verrà rallentato da una Casa Bianca che ha deciso di alzare il livello dell’arroganza imperiale senza distinguere nemmeno tra avversari ed alleaticrea frizioni pericolose. Il ritiro dal trattato sui missili balistici a medio raggio con la Russia ha reo l’Europa un bersaglio prima che un alleato. Questa amministrazione, in luogo della ricerca del consenso e in disprezzo degli organismi internazionali, ha appaltato in outsourcing la politica internazionale, consegnandosi ad Arabia Saudita e Israele nello scenario che va dal Maghreb al Golfo Persico ed alla lobby terroristica e mafiosa cubano-americana della Florida le politiche in America Latina.

Inutile inondare Hollywood con la propaganda dell’invincibilità e dell’imprescindibilità. Il convincimento diffuso in tutte le cancellerie è che gli USA siano ormai una superpotenza non più in grado di risolvere una crisi politica o di vincere una guerra, non più capace di rappresentare una soluzione ma di palesarsi ovunque come il problema.