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di Roberta Folatti

L’America che non si riconosce più


La cosa più impressionante è che, malgrado lo sfoggio di muscoli, l’esercito americano ha concluso molto poco nelle operazioni in Iraq e in Afghanistan. I numeri parlano chiaro: tra i prigionieri detenuti nelle varie carceri solo il 5% è stato arrestato dai militari americani, gli altri vengono dalle retate delle polizie e degli eserciti locali, milizie senza controllo, infiltrate spesso da esponenti di Al Qaeda. In questi arresti quasi casuali ( fatti anche per vendette personali o ritorsioni) sono rimasti coinvolti molti innocenti, alcuni dei quali hanno pagato con la vita lo sfoggio di muscoli dell’amministrazione Bush.
Taxi to the dark side, vincitore dell’Oscar 2008 per il miglior documentario, parte dalla vicenda del giovane Dilawar, che sarebbe passata del tutto sotto silenzio se non fosse stato per il giornalista del “New York Times” Tim Golden, e compie un’indagine approfondita sulle violazioni dei diritti umani nelle carceri militari americane in Afghanistan e in Iraq, e nella famigerata Guantanamo. “Sono stato letteralmente catturato – racconta il regista Alex Gibney, già autore del profetico Enron, l’economia della truffa – dall’articolo di Tim Golden in cui si ricostruiva l’incredibile vicenda del tassista Dilawar. Per la brutalità del modo in cui è stato ucciso, per la conclamata innocenza ma soprattutto per l’ultimo brano dell’articolo, in cui Golden riportava la confessione di un soldato che ricostruiva il terzo giorno di interrogatorio di Dilawar durante il quale, nonostante molti dentro la prigione di Baghram fossero giunti alla conclusione della sua non colpevolezza, continuarono a colpirlo.”

Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, Bush e soprattutto il vicepresidente Cheney lavorarono con accanimento per corrodere dall’interno le leggi a tutela dei diritti umani e contro la tortura. A poco a poco, spiega ancora il regista “un piccolo numero di americani ha trascinato l’intero paese nel suo lato oscuro... Spero che il mio documentario sia recepito come un racconto istruttivo su come alcune società vengano corrotte dalla paura e dalla rabbia”. Forse la tattica di spargere insicurezza e il senso di una minaccia incombente ricorda qualcosa a noi italiani, certo è che quando le persone sono spaventate tendono ad accettare con maggior facilità le violazioni alle leggi compiute dai propri governanti.

Gli Stati Uniti, la patria dei diritti dell’uomo, il paese dei giusti autoelettosi esportatore di democrazia, dal 2001 in avanti ha permesso ai propri militari di costruire veri e propri campi di tortura, dove la priorità era far confessare i presunti terroristi. Non importava se tra gli arrestati, presi alla rinfusa, senza una coerente azione di intelligence, ci fossero poche mele marce e tanti poveracci. Non importava se le confessioni estorte spesso erano solo frutto della paura e delle vessazioni. L’importante era mostrare i muscoli e la faccia dura.

Nel film Gibney mette idealmente di fronte i sostenitori della tortura, giustificata dalla gravità del momento, e coloro che avvertono un deterioramento dei valori chiave della nazione americana. In particolare c’è la testimonianza dell’ex capo dell’FBI, da sempre contrario alle indagini basate su confessioni estorte con metodi violenti: racconta come dopo gli attentati a Ground Zero abbiano preso piede gli interrogatori cari alla Cia, con torture fisiche e psicologiche, ma come questo fatto non abbia portato ad arrestare i capi di Al Qaeda. Semmai a incarcerare gente innocente. “Taxi to the dark” è davvero impressionante, uscita dalla sala dove lo proiettavano in anteprima, mi è venuto l’impulso di chiedere scusa ad ogni persona araba che incontravo...

Taxi to the dark side (Usa, 2008)
Regia: Alex Gibney
Sceneggiatura: Alex Gibney
Fotografia: Maryse Alberti, Greg Andracke
Montaggio: Sloane Klevin
Distribuzione: Ripley’s Film