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di Roberta Folatti

La parabola triste del leader dei Joy Division

E’ quella sensazione di spaesamento, di perdita di controllo sulla propria vita che lo rende fragile e indifeso. Come trovarsi su un auto che prende improvvisamente velocità e accorgersi di non poter azionare i freni. Ci si scopre spettatori della propria esistenza, ci si guarda dal di fuori stentando a riconoscersi.
A ventitre anni e con un animo ipersensibile questi sentimenti possono alla fine risultare soverchianti. Fu così per Ian Curtis, leader del gruppo dei Joy Division. Partiti da Manchester si conquistarono in breve tempo le credenziali per sfondare anche all’estero. Coi testi composti da Curtis – introverso fino ad apparire, in certi momenti, asociale ma capace di condensare in versi toccanti la sua fatica di vivere – la band aveva cominciato a scalare le classifiche di vendita e si era conquistata la stima dei fans.

Invece di vivere questa avventura con spensieratezza, il giovane cantante-compositore si incupiva preso dai suoi problemi personali. Si era sposato giovanissimo e la sua compagna era rimasta presto incinta, ma col crescere del successo si rendeva conto che quelle scelte premature erano state uno sbaglio. Al tempo stesso si sentiva legato indissolubilmente alla sua giovane famiglia, vivendo i distacchi con grandi sensi di colpa. Mentre sua moglie stava volentieri nella cittadina nei dintorni di Manchester dove erano cresciuti, Curtis odiava quell’ambiente chiuso, soffocante.

Col passare degli anni le distanze fra loro aumentavano anche a causa delle nuove conoscenze che il cantante ebbe modo di fare girando l’Inghilterra coi Joy Division. A tutto questo si aggiunse l’irrompere dell’epilessia nella vita del giovane, una malattia che lo costrinse a imbottirsi di farmaci che probabilmente influirono sul suo umore. Mescolati all’alcool e alle abitudini nomadi tipiche dei musicisti, resero precaria la sua salute, e lo fecero sentire sempre un po’ borderline. L’incontro con una avvenente giornalista belga lo mandò ancora di più in confusione, lacerato tra una storia nuova ed emozionante e il senso di responsabilità verso la giovane moglie, che a lui si affidava totalmente, e la loro bambina. Crebbe in lui la convinzione di non essere un buon padre.

Control racconta dunque, più che la vicenda dei Joy Division, la triste parabola di questo ragazzo precocemente intristito. Il regista è un celebre fotografo, Anton Corbijn, che è stato un fan del gruppo, e la storia è tratta dalla biografia firmata dalla vedova di Curtis. L’attore protagonista, Sam Riley riesce ad imprimere sul proprio volto i segni dell’apatia e della progressiva desolazione che invasero la vita di Curtis nonostante il successo, però quando sta sul palco risulta un po’ fasullo. Quasi fastidioso con quelle smorfie esagerate. Forse più che scimiottare l’originale avrebbe dovuto trovare una chiave più personale di interpretazione.
Girata in bianco e nero “Control” è una pellicola un po’ asfittica, la forza del rock che dovrebbe pervaderla rimane sullo sfondo. In primo piano l’incapacità di vivere di un ragazzo di vent’anni.

Control (Usa, Gran Bretagna, Giappone, Australia, 2007)
Regia: Anton Corbijn
Sceneggiatura: Matt Greenhalgh
Supervisione musiche: Ian Neil
Cast: Sam Riley, Samantha Morton, Alexandra Maria Lara, Joe Anderson
Distribuzione: Metacinema