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I dati del PIL della Germania confermano che la più grande economia dell'Unione Europea è entrata in recessione tecnica. La seconda stima del PIL tedesco per il primo trimestre è stata rivista in ribasso e riflette una contrazione dell’economia dello 0,3%. Questo dato, unito al calo dello 0,5% del quarto trimestre 2022, indica che la Germania è entrata in recessione tecnica durante l'inverno. La locomotiva tedesca, quindi, ha smesso di trainare in coincidenza con la chiusura delle importazioni di idrocarburi dalla Russia in obbedienza ai voleri degli Stati Uniti, abbandonando così l’elemento di maggiore incidenza del suo sviluppo industriale e commerciale, sia in chiave di importazione che attraverso la rivendita a terzi. Sholtz, uno dei politici meno carismatici e capaci della storia tedesca, è riuscito a portare la Germania in recessione consegnando la sua politica economica alla disponibilità degli USA.

 

La recessione tecnica tedesca è la spia di una condizione più generale e ben più grave nella quale versa l’economia del Vecchio Continente, già messa in crisi dalle diseguaglianze e sociali e dalla povertà diffusa. L’Europa è tutto meno che un giardino circondato da una giungla, come ha affermato Joseph Borrell, il ministro meno autorevole della compagine di Bruxelles. Abbandonata ogni velleità di indipendenza e di progetto politico-sociale autonomo, flagellato da deflazione, disoccupazione, crisi industriale, insicurezza sociale, povertà diffusa, difficoltà di accoglienza e integrazione dell’immigrazione, il Vecchio Continente è sottoposto alla più grave crisi socioeconomica della sua storia.

La UE, nel suo complesso, non investe per la riduzione della povertà. L’Eurostat certifica che l’obiettivo di ridurre gli indigenti di 20 milioni entro l’anno prossimo è fallito. I cittadini poveri sono ancora 109,2 milioni.

La crescita della povertà non trova risposte adeguate nel vocabolario liberista e benché la spesa per la protezione sociale risulti apparentemente alta, così non è. A maggior ragione dopo l’epidemia di Covid-19, la spesa sanitaria europea si dimostra inefficace a fronteggiare le emergenze e la crescente riduzione degli investimenti nella sanità pubblica ha prodotto uno sfascio gestionale che si ripercuote duramente sui livelli di assistenza.

Lo stesso per la protezione sociale in ambito lavorativo. Qui addirittura i dati ufficiali vengono sottoposti ad un vero e proprio raggiro statistico per portare la spesa pro-capite a livelli accettabili. Si censisce il livello di disoccupazione prendendo in esame una fascia d’età che va dai 15 ai 74 anni, e così risulta che i disoccupati sono il 6% della forza lavoro disponibile. Ma se si volesse esaminare davvero il livello di disoccupazione reale, si dovrebbe esaminare un’età che va dai 25 ai 67 anni, perché mediamente fino ai 25 di studia e dopo i 67 si è in pensione. Ecco allora che la percentuale di disoccupazione cambia immediatamente, dal momento che lavora il 68,4 della forza lavoro disponibile, mentre è disoccupata il 31,6.

Sono numeri che imporrebbero misure di reddito pubblico urgenti e parametrate al costo della vita nei rispettivi paesi ed un rilancio delle politiche industriali che dovrebbero essere tirate fuori dal Patto di Stabilità. All’aumento drammatico di povertà e diseguaglianze, non può essere posto un argine con i decimali di rapporto tra PIL e Deficit. L’aspetto politico più importante e dannoso al tempo stesso, è infatti il dover sottoporre le spese per la protezione sociale ai vincoli di Bilancio dettati dal Fiscal Compact, ovvero lo strumento di stabilità finanziaria dell’Unione che è la pietra tombale per la lotta alla povertà e al disagio sociale.

Firmato da 25 Paesi nel 2012, prevede vincoli economici con l'obiettivo di contenere il debito pubblico di ciascun paese garantendo il principio dell'equilibrio di bilancio. In sostanza, impone il pareggio di bilancio nelle legislazioni nazionali, a parte le emergenze (idrogeologiche, sanitarie, climatiche). Entro il 2035 ogni paese dell'Eurozona dovrà raggiungere un debito pubblico inferiore al 60% del Pil (tale vincolo era già previsto nel Trattato di Maastricht). Ove non riuscisse subirebbe le procedure d’infrazione europee.

La spesa sociale è quindi la prima vittima di un rigore di Bilancio fondato su parametri che nulla hanno a che vedere con le dottrine economiche ma che corrispondono solo alla volontà di ridurre l’intervento pubblico a sostegno delle fasce disagiate e a togliere spazio per l’iniziativa pubblica - sia in ambito regolatorio che di investimenti - a tutto vantaggio di quella privata.

L’affronto politico è che nei fatti il Fiscal Compact è uno strumento di governo dell’economia da parte della Commissione Europea su tutti gli stati UE. Espropria la decisionalità politica e l’autonomia delle Assemblee legislative ed assegna alla Commissione Europea il ruolo di ultimo decisore. La legge di Bilancio di ogni Paese dovrà infatti essere sottoposta al vaglio ed all’approvazione di Bruxelles, privando così i parlamentari di tutti i paesi europei dell’esercizio legislativo loro assegnatogli dalle rispettive Costituzioni.

C’è dunque una pesantissima sottrazione della facoltà di legiferare in campo economico e sociale da parte del potere legislativo e, di fatto, un commissariamento di tutti i governi da parte della Commissione Europea, che è in una posizione dominante nei confronti di ogni singolo stato. Che poi Parigi e Berlino aggirino gli ostacoli è un classico: come nella fattoria degli animali, tutti sono uguali ma qualcuno è più uguale degli altri.

 

Gli affari delle armi o le armi degli affari?

C’è solo un campo dove il Fiscal Compact non può intervenire, dove le sue regole non valgono: il campo della Difesa. Gli apparati militari, i loro costi e gli investimenti non sono sottoponibili a vincoli di Bilancio. Le spese militari sono le uniche considerate non computabili nel Bilancio da sottoporre a Bruxelles e soggetto a Fiscal Compact. Sganciate dalla compatibilità sociale e finanziaria di ogni paese, le spese militari viaggiano su un binario autonomo e la rotta è tracciata da Washington, non da Bruxelles. In sostanza la Commissione Europea comanda sui paesi, ma la NATO comanda sulla Commissione Europea.

Solo tra il 2021 e il 2022 la spesa è aumentata del 2,2%. L’obiettivo della NATO è di far aumentare la spesa militare al 2% del PIL (al momento raggiunto solo da 7 paesi su 29) con una proiezione entro cinque anni per arrivare al 4%. Al prossimo vertice di Luglio, a Vilnius, si dirà che la soglia del 2% è da considerarsi “soglia minima”, dato che la tendenza è arrivare al 3 o al 4%. La corsa è all’indirizzo dei flussi di spesa sul terreno militare, al trasferimento di risorse pubbliche dallo stato sociale al comparto militare. Aumentare la spesa bellica è il nuovo imperativo dei paesi europei, che si sono impegnati al vertice di Versailles ad incrementare gli sforzi finanziari nella difesa Ue.

E non c’è nessuna relazione tra l’aumento delle spese militari e il conflitto tra NATO e Russia in Ucraina, semmai proprio i bilanci sembrano indicare come la guerra fosse stata programmata dall’Alleanza. Infatti i dati dicono che dal 2014 al 2020 la spesa militare europea era già aumentata da circa 159 a 198 miliardi di euro (25% in più) e che il 2022 era stato l’ottavo anno consecutivo a registrare un aumento delle spese militari di tutti i paesi dell’Alleanza Atlantica.

Secondo il Sipri (l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma), la spesa militare totale in Europa, includendo sia l’Ue che i Paesi extra-Ue come Regno Unito e Norvegia, già nel 2020 era stata di 378 miliardi di dollari. Extra Europa o no, sono tutti paesi NATO. Oltre un miliardo di Euro giornalieri per gli eserciti europei.

A dimostrare come sia stretta la relazione tra investimenti in armi e welfare c’è l’Italia, che prevede di portare il suo bilancio militare da 25 a 38 miliardi di Euro. Stiamo parlando di 108 milioni di Euro al giorno di spesa militare che la vede in 10 missioni internazionali con 2500 uomini e un costo diretto di 345 milioni di Euro l’anno, mentre è l’ultima dei 27 paesi UE per la spesa in istruzione e quarta per incidenza della povertà tra i lavoratori.

L’aumento del budget militare conviene all’industria bellica, che in questa fase, aggiunge finanziamenti attraverso il Fondo europeo per la Difesa. Non a caso i profitti del settore sono in forte crescita. Il maggior vantaggio va alle industrie belliche statunitensi, che coprono circa il 70% delle forniture dell’Alleanza. Il complesso militar-industriale statunitense è del resto il volano centrale dell’economia statunitense ed è chiaro come l’aumento della spesa militare di tutto l’Occidente porti con sé un aumento in percentuale dei profitti delle aziende USA per la difesa, con una ricaduta positiva diretta sul PIL statunitense.

La NATO non si nasconde più dietro le finte asserzioni sulla necessità di “ripianare i sistemi d’arma ceduti all’Ucraina”, ma rivendica l’opzione del confronto diretto con i suoi nemici e parla apertamente di una nuova dottrina militare che preveda di “colmare i gap capacitivi”.

C’è un riallineamento nel finanziare un modello di guerra convenzionale a prescindere dalla possibilità che si dia uno scenario di questo tipo. Lo si evince dalla quota di produzione bellica per gli eserciti convenzionali che continua ad essere preminente rispetto a quella di sistemi d’arma rapidi e facilmente trasportabili, notoriamente impiegati nelle operazioni di polizia internazionale o peace-keeping che dir si voglia.

Questo mutamento di rotta nella dottrina militare europea viene giustificato con la maggiore facilità nel passare dalla strutturazione adatta alle operazioni di guerra convenzionale (molto più onerose) a quelle di polizia internazionale o di forze di interposizione che non il contrario.

Scenari da guerra totale che comportano per conseguenza un atteggiamento sempre più belligerante da parte della UE, che si appresta ad assegnare le sue risorse per la Difesa alle campagne militari statunitensi ormai chiaramente indirizzate verso lo scontro globale in funzione di sopravvivenza del dominio statunitense.

L’Europa, che cede definitivamente non solo la sua indipendenza e la sua volontà politica, ma anche la sua stessa sicurezza collettiva alle operazioni di salvataggio del dominio unipolare, è pronta a mettere in campo le proprie forze armate in funzione anti-russa e anti-cinese, nonostante né Mosca né Pechino pensino di attaccare l’Europa se non verranno attaccate a loro volta.

La Terza guerra mondiale è già in atto e, indipendentemente dalle forme e dai luoghi dove si manifesterà, vede l’Europa nel suo ruolo di sempre, quello belligerante. Non le sono bastate le guerre coloniali e due conflitti mondiali: l’odore dell’oro e del sangue continua ad essere una attrazione fatale per un continente diventato vecchio senza essere mai stato adulto.