Delle tre elezioni che si sono tenute in altrettanti paesi europei nel fine settimana, il secondo turno delle presidenziali in Romania è stato l’appuntamento maggiormente seguito dalla stampa e dagli osservatori internazionali. Relativamente a sorpresa, il candidato europeista, Nicuşor Dan, ha prevalso in maniera netta sul sovranista George Simion, facendo tirare un sospiro di sollievo a quanti già avvertivano di un allontanamento definitivo di Bucarest dai “valori” dell’Unione. In Polonia, invece, il candidato della maggioranza di centro-destra e quello della destra all’opposizione andranno come previsto al ballottaggio, anche se nessuno dei due propone una qualche alternativa alla politica estera suicida seguita finora da Varsavia. Le legislative anticipate in Portogallo si sono infine sostanzialmente concluse con lo stesso risultato dello scorso anno, senza cioè una maggioranza di governo chiara, ma i socialisti hanno fatto registrare una sorta di tracollo, mentre avanza ulteriormente il partito di estrema destra Chega.
L’Atlantismo e la Romania
Praticamente tutti i media ufficiali in Occidente avevano presentato il ballottaggio romeno come una sfida epocale con serie implicazioni, nelle parole ad esempio del corrispondente del Guardian, “per gli orientamenti strategici e le prospettive economiche del paese, così come per l’unità dell’UE”. Al primo turno, Simion del partito ultra-nazionalista Alleanza per l’Unione dei Romeni (AUR) aveva ottenuto circa il 40%, cioè quasi il doppio dei consensi di Dan, attualmente sindaco della capitale, piazzatosi al secondo posto con una manciata di voti di vantaggio sul candidato dell’establishment politico tradizionale, Crin Antonescu. Il successo di Simion aveva scatenato letteralmente il panico a Bucarest, con il crollo della borsa e della valuta romena, mentre il governo del socialdemocratico Marcel Ciolacu, appoggiato anche dai liberali (PNL), si era immediatamente dimesso.
Com’è ormai noto, a fine 2024 le autorità elettorali romene avevano cancellato il primo turno delle presidenziali dopo la clamorosa vittoria di un altro candidato nazionalista di estrema destra, Călin Georgescu, apertamente contrario al coinvolgimento romeno nel conflitto russo-ucraino. La Corte Costituzionale aveva in seguito confermato l’annullamento in base ad accuse, basate su zero prove per ammissione dello stesso tribunale, di “interferenze” russe a favore della campagna elettorale di quest’ultimo. A Georgescu era stato impedito di candidarsi alle elezioni riprogrammate ed è tuttora sotto indagine per vari presunti reati.
Il colpo di mano politico-giudiziario in Romania aveva avuto la benedizione di Bruxelles, da dove si temeva che la valanga di consensi per Georgescu, nonostante si fosse presentato senza una struttura politica degna di questo nome, potesse condurre a un esito delle presidenziali pericoloso per la posizione strategica della Romania nel quadro della crociata anti-russa in atto. Simion aveva da parte sua cercato di capitalizzare l’opposizione nel paese nei confronti dei partiti tradizionali per la manovra anti-democratica messa in atto, rilanciando alcune delle iniziative del programma di Georgescu, sia pure con un’attitudine più prudente riguardo la guerra in Ucraina e le relazioni con l’UE. Il leader di AUR si era in particolare richiamato al modello trumpiano “MAGA” per la Romania, ma l’esito del ballottaggio ha confermato come l’effetto del presidente americano continui a essere più negativo che positivo per i suoi simpatizzanti al di fuori degli USA.
In ogni caso, Simion aveva inizialmente respinto i dati degli exit poll che lo davano sconfitto. Gli inviti rivolti ai suoi elettori per scendere in piazza e protestare presunti brogli sono però rientrati dopo poche ore, quando la distanza dal rivale Dan è apparsa incolmabile (54% a 46%). I sondaggi della vigilia davano in ogni caso Simion in vantaggio, nonostante il margine si fosse ridotto con l’avvicinarsi del secondo turno. Non c’è dubbio che la propaganda ultra-invasiva degli ambienti “mainstream” dentro e fuori la Romania a favore del candidato filo-UE abbia influito sui risultati. Questa campagna non è però stata considerata come “interferenza” esterna nel voto di un paese sovrano, al contrario di quella mai dimostrata da parte russa per Georgescu e Simion.
Interferenze ancora più pesanti le ha inoltre denunciate il numero uno di Telegram, Pavel Durov, il quale ha rivelato che il governo francese lo aveva “approcciato” nei giorni scorsi per convincerlo a censurare “le voci conservatrici” in Romania, così da favorire la campagna elettorale di Nicuşor Dan. Il capo dell’intelligence estera francese, Nicolas Lerner, avrebbe recapitato personalmente questo messaggio a Durov, che però sostiene di averlo respinto. Il clima in cui si sono svolte le elezioni di domenica è stato quindi pesantemente favorevole a Dan e alle forze pro-UE, ma, in maniera incredibile, il governo di Bucarest aveva messo in guardia di nuovo da una campagna di disinformazione in atto che sembrava avere tutte “le caratteristiche dell’interferenza russa”.
Le inclinazioni fascistoidi di Simion hanno comunque contribuito a mobilitare parte degli elettori romeni e, infatti, l’affluenza è stata la più alta degli ultimi 25 anni (65%). Detto questo, la sensazione netta era che l’Europa e la NATO non si potevano permettere di “perdere” la Romania. Il collocamento di questo paese fermamente nello schieramento atlantista è una condizione irrinunciabile e – che siano avvenuti o meno – brogli, “interferenze” o colpi di mano politico-giudiziari sono elementi che le élites tradizionali romene e i loro alleati in Europa erano pronti a (ri)mettere in campo per evitare derive come quella prospettata dalla vittoria di Georgescu a novembre 2024.
Nicuşor Dan dovrà ora nominare un nuovo primo ministro, secondo molti osservatori pescando nel movimento anti-corruzione che lo sostiene (“Unione Salvate la Romania”), verosimilmente appoggiato dal PNL e/o dai socialdemocratici. Dietro l’apparenza anti-establishment, il presidente-eletto garantirà i servizi di Bucarest alle mire NATO in relazione alla crisi russo-ucraina. Inoltre, sul fronte interno favorirà l’implementazione di pesanti misure di ristrutturazione economica, come ha infatti subito avvertito dopo la notizia della sua vittoria. Parlando ai suoi sostenitori, Dan ha preannunciato l’arrivo di “un periodo difficile, necessario per riequilibrare la situazione economica”. Se il neo-presidente ha invocato “speranza e pazienza”, ciò che finirà per accadere è la probabile ulteriore avanzata delle forze populiste di ultra-destra.
Polonia senza sorprese
In Polonia era in programma domenica il primo turno delle presidenziali e i risultati, non ancora definitivi, hanno confermato l’accesso al ballottaggio dei candidati dei due più importanti schieramenti politici. Il sindaco di Varsavia, Rafał Trzaskowski, è espressione della Coalizione Civica al governo e ha chiuso in vantaggio con quasi il 31% dei consensi. Molto vicino (circa 29%) si è piazzato Karol Nawrocki, candidato del partito populista di destra Diritto e Giustizia (PiS), scalzato dal potere meno di due anni fa ma che detiene ancora la presidenza con l’uscente Andrzej Duda. Nawrocki potrebbe beneficiare tra due settimane del serbatoio di voti di altri due candidati di destra eliminati, i quali hanno raccolto rispettivamente il 15% e il 6% dei voti espressi.
Sia il primo ministro, Donald Tusk, sia altre personalità filo-europee di primo piano avevano raccontato di una competizione decisiva per il futuro della Polonia, in questo caso per via dei rischi che l’elezione di un altro presidente dell’opposizione avrebbe rappresentato per la democrazia di questo paese. Tusk e i suoi alleati si sono scontrati più volte in questi mesi con il presidente Duda, attribuendo a quest’ultimo la mancata implementazione di molte delle promesse elettorali che, a loro dire, avrebbero dovuto invertire la deriva anti-democratica registrata sotto i governi a guida PiS negli otto anni precedenti.
Anche in Polonia c’è da attendersi dunque un’ondata di propaganda a favore di Trzaskowski in vista del ballottaggio del primo giugno. Anche se le differenze tra i due sfidanti riguardano, tra le altre, gli orientamenti di politica estera di Varsavia, lo scontro non ha a che fare con il sostegno all’Ucraina e i rapporti con la Russia. Entrambi sono a favore del primo e contro la normalizzazione con Mosca. Trzaskowski e l’attuale governo prediligono però l’integrazione con l’Unione Europa. Il PiS, al contrario, è storicamente più freddo nei confronti di Bruxelles – e di Berlino – e cerca di coltivare relazioni più strette con gli Stati Uniti. L’eventuale successo al ballottaggio di Trzaskowski prospetta perciò un clima più disteso con l’Europa, assieme tuttavia a un sensibile aumento del rischio di escalation militare sul fronte ucraino.
La precarietà portoghese
Gli elettori in Portogallo sono andati infine alle urne domenica per la terza volta in tre anni dopo lo scioglimento anticipato del parlamento seguito al voto di sfiducia dello scorso marzo contro il governo di minoranza del premier di centro-destra, Luís Montenegro. L’esecutivo si era indebolito fatalmente a causa di uno scandalo legato alle attività della società di consulenza di proprietà della famiglia del primo ministro. La Alleanza Democratica (AD) di Montenegro si è confermata la prima forza politica con oltre il 32% dei consensi, passando da 80 a 86 seggi. Il principale partito di opposizione, quello Socialista (PS), è sceso invece al 23,4% con una vera e propria emorragia di seggi (da 78 a 58). A 58 è salito anche il partito sovranista Chega, a ridosso dei socialisti con il 22,6% dei voti.
L’estrema destra portoghese ha beneficiato delle frustrazioni degli elettori sia per la persistente instabilità politica sia per il moltiplicarsi degli scandali di corruzione e per le precarie condizioni economiche. La classe politica ha però orientato il dibattito pubblico prevalentemente sulla questione migratoria. Montenegro proverà a creare un altro gabinetto di minoranza, visto che non disporrà della maggioranza assoluta nemmeno con il probabile contributo del piccolo partito Iniziativa Liberale (7 seggi). Il premier ha escluso di rivolgersi a Chega, ma l’emarginazione di questo partito, se dovesse essere confermata, non ha tanto a che fare con scrupoli democratici ma più che altro con questioni di immagine e di opportunità politica. Il governo uscente aveva infatti già fatto proprie alcune delle misure nel programma della destra estrema, a cominciare appunto dalla lotta all’immigrazione, come conferma la recente espulsione di circa 18 mila “irregolari”, avvenuta proprio a ridosso del voto anticipato.