Dopo il primo round di negoziati indiretti in Oman, Roma ospita i colloqui tra Stati Uniti e Iran aventi come oggetto il programma nucleare dell’Iran. Gli USA vorrebbero ridurre all’ambito convenzionale la difesa iraniana per impedire che una eventuale azione di forza di Tel Aviv possa trovare una risposta capace di colpire con grande efficacia Israele. Si vorrebbe mantenere uno status quo che vede Israele libero di articolare la sua politica genocida senza il timore di dover pagare con la sua incolumità.
La Casa Bianca torna a negoziare dopo aver prima firmato con Obama e poi stracciato con il primo Trump, l’accordo denominato 5+1 propiziato dall’Italia e firmato da Francia, Gb, USA e Germania, che individuava nella legittimità iraniana a dotarsi del nucleare in chiave energetica per scopi pacifici a patto di consentire controlli AIEA. Nel 2018, durante il suo primo mandato, era stato lo stesso Trump a ritirare gli USA dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo sul nucleare iraniano varato sotto l’amministrazione di Barack Obama nel 2015. Confermando così come Washington non sia certo un interlocutore credibile o affidabile, visto che il concetto di eredità storica nella politica estera statunitense vale poco.
Le trattative non saranno semplici, perché la dimensione dell’Iran non consente immaginare cammini trionfali per l’Occidente. A differenza dei campi profughi palestinesi lo Stato persiano è dotato di capacità militari ed economiche ed è forte di un accordo di partenariato strategico con la Russia che, sebbene non riguardi la sfera militare, ha nella salvaguardia della sicurezza comune nella regione un impegno comune. E nulla consente di scartare a priori, proprio in nome della sicurezza, una qualche assistenza militare di Mosca a Teheran in caso di attacco.
Mosca e Pechino non intervengono ma certo non intendono permettere agli Stati Uniti e a Israele di ipotecare lo sviluppo dell’Iran e men che mai di minare la riapertura di relazioni diplomatiche e politiche con le monarchie del Golfo. Questo infatti è di fondamentale importanza per un ridisegno positivo degli equilibri geopolitici ed energetici dell’area del Golfo Persico e del Medio Oriente che sembra auspicare la comune presenza di Iran e Arabia Saudita nella galassia BRICS.
Dare/avere
Washington magari immagina di potersi sedere a trattare con la minaccia di una iniziativa militare nel caso l’Iran non accetti la limitazione strutturale al suo sviluppo economico e militare, perché alla fine di questo si tratta. Teheran però non sembra però disponibile a recitare la parte dell’agnello che bussa alla porta di casa nel giorno di Pasqua per autoinvitarsi a pranzo. Che l’Iran disponga di tutte le componenti necessarie per dotarsi di sistemi d’arma atomici è sicuro, almeno secondo quanto afferma l’AIEA, per il cui Direttore, Mariano Grossi, deve solo decidere se assemblare quanto già in suo possesso.
Nel merito del negoziato non emergono informazioni ufficiali, ma stando ad indiscrezioni filtrate ad arte, Witkoff avrebbe presentato ai suoi interlocutori una bozza di accordo che non include la richiesta di smantellare totalmente il programma nucleare iraniano ad uso civile. Sarebbe un cambio di rotta netto e per questo poco probabile.
A corollario di questa ipotesi ottimistica troverebbe conferma indiretta la notizia fatta trapelare dalla Casa Bianca la settimana scorsa, che indicava come gli Stati Uniti avessero bloccato un attacco di Israele all’Iran. Tel Aviv avrebbe pianificato per il 9 Maggio un attacco in profondità ai siti nucleari iraniani, ma Trump avrebbe chiesto di sospenderla per dare il tempo ai negoziati di incamminarsi alla ricerca di un accordo.
Sulla disponibilità USA ad accettare che l’Iran prosegua nella sua nuclearizzazione per scopi civili i dubbi permangono. Non tanto per quanto attiene alla percezione di Washington circa l’entità del pericolo, quanto per le pressioni israeliane sull’Amministrazione Trump, che a tutto pensa meno che contrastare Tel Aviv.
In realtà, pensare che i colloqui possano avere un esito positivo appare come una grande prova di ottimismo della volontà. Nelle pretese occidentali, che nel combinato disposto di sanzioni sul petrolio e negazione del nucleare, prevederebbero di fatto la resa energetica di Teheran, c’è l’obiettivo di ridurre l’Iran a entità nazionale priva di ogni politica estera ed energetica, quindi ad ogni influenza sullo scacchiere regionale. In cambio non si vede proprio cosa potrebbe proporre l’asse USA-Israele che non siano generiche frasi contenenti promesse e minacce.
Se da parte iraniana c’è tutta l’intenzione di negoziare solo il programma nucleare civile in cambio dell’allentamento delle sanzioni, per gli USA e Israele (convitato di pietra del negoziato) la partita con l’Iran abbraccia questioni di importanza geostrategica che vanno aldilà del mero programma nucleare. Il partenariato con la Russia, la dotazione di missili balistici, decisivi per la difesa e la sicurezza del paese persiano e i rapporti con i propri alleati in Medio Oriente, da Hezbollah a Hamas, dalle milizie sciite irachene agli Houti in Yemen. Ma ammesso che l’Iran decida di porre sul tavolo la Rete della Resistenza, accetterebbe (forse) di discutere questi ulteriori elementi solo dopo un accordo sul negoziato in corso che fosse ritenuto soddisfacente dagli Ayatollah.
Per quanto sia auspicabile un risultato positivo dei colloqui, la sensazione è che siano un mascheramento della volontà politica di colpire l’Iran per eliminare l’unica potenza regionale in grado di contenere l’espansionismo del genocida regime israeliano. Più come un tentativo di costruire una giustificazione per un attacco sostenendo l’inutilità dimostrata di un accordo negoziale che un negoziato vero e proprio. E’ questa la strategia della lobby israeliana interna alla Casa Bianca, che spinge per una soluzione militare attraverso un attacco congiunto tra Israele e USA all’Iran, con l’opzione di riserva che vede Israele sola ad attaccare con un appoggio logistico, aereo e satellitare statunitense di copertura all’attacco israeliano.
L’Iran non ha fretta, Trump sì, deve esibire un primo successo in politica estera. Ma un’aggressione occidentale all’Iran proporrebbe una nuova e sanguinosa guerra nella quale gli USA si troverebbero coinvolti e presenterebbe ben altro da quanto Trump è andato raccontando circa le sue capacità di imporre la fine delle guerre ed il ripristino delle ragioni dell’economia nei contenziosi internazionali.
D’altra parte negoziare significa discutere delle differenze e cercare un accordo che sia utile per tutti. Proprio per questo Teheran negozia con gli Usa sulla base del reciproco interesse, non vi sono posizioni di assoggettamento possibile o disponibilità ad accettare un ridimensionamento politico, economico e militare sulla base delle necessità imperiali. Attaccare l’Iran è tutt’altro affare che bombardare senza resistenza campi profughi e ospedali. La capacità persiana di infliggere costi altissimi all’entità statuale sionista ed all’intero occidente resta alta. Converrà che a Tel Aviv come a Washington ne tengano conto.