Il tetto artificiale al prezzo del petrolio russo, deciso formalmente dall’Unione Europea nel fine settimana, rischia di diventare la più inutile e, forse, dannosa delle misure sanzionatorie dirette contro Mosca e adottate a proprio svantaggio negli ultimi mesi da Bruxelles. Dopo un’accesa disputa interna tra i paesi che intendevano fissare una soglia al livello risibile di 20 o 30 dollari al barile (Polonia, paesi baltici) e altri preoccupati per le conseguenze dell’iniziativa, la quota è stata alla fine fissata a 60 dollari. Qualunque sia il tetto – o “cap” – gli effetti non saranno comunque quelli desiderati dall’UE o da Washington per una serie di ragioni, prima fra tutte l’ovvia indisponibilità della Russia a partecipare a uno schema di manipolazione del mercato del greggio criticato dalla grandissima parte dei produttori globali.

 

Lo stesso giorno in cui è entrato ufficialmente in vigore il tetto al prezzo del petrolio russo è scattato anche l’embargo europeo delle importazioni via mare di questo stesso prodotto. Il provvedimento verrà adottato anche dai paesi che fanno parte del G-7 e dall’Australia. Il meccanismo prevede il divieto di fornire “assistenza tecnica”, servizi di brokeraggio, assicurazione e trasporto a quelle transazioni di greggio russo fissate a un prezzo di vendita superiore ai 60 dollari al barile. Dal momento che gli operatori europei in questo ambito detengono una grossa fetta del mercato internazionale, nelle intenzioni dell’Europa il “price cap” dovrebbe risultare in qualche modo efficace.

L’assunto dei governi che hanno dato vita all’iniziativa si basa però su argomenti molto dubbi. La Russia non sarebbe cioè in grado di sopperire in tempi brevi con petroliere e servizi di assicurazione propri per vendere il greggio al di sopra del tetto appena introdotto. Allo stesso tempo, la minaccia di fermare una parte della propria attività estrattiva non si dovrebbe concretizzare, poiché Mosca non potrebbe permettersi di ridurre le entrate dell’export petrolifero.

In realtà, il governo e i principali produttori russi già da tempo stanno allargando la flotta di petroliere su cui possono contare per il trasporto del greggio. Il Financial Times ha scritto ad esempio nei giorni scorsi che Mosca ha “ammassato una flotta fantasma di oltre cento petroliere” in previsione del tetto imposto dall’Europa, dagli USA e dai loro alleati. La scorsa estate, la stampa occidentale aveva inoltre riportato che la compagnia di assicurazioni pubblica russa RNRC stava già garantendo il trasporto di petrolio per mezzo delle navi russe. Operatori di altri paesi nel settore navale e assicurativo approfitteranno poi del vuoto lasciato dalle compagnie occidentali, sottraendo a queste ultime le rispettive quote di mercato, spesso in maniera definitiva. A farne le spese saranno soprattutto le società di spedizioni marittime greche e cipriote, i cui governi avevano infatti proposto un tetto più alto attorno ai 70 dollari al barile.

La Russia ha in ogni caso ribadito che non intende vendere petrolio a quanti aderiranno al “price cap”, qualunque sia la cifra stabilita, anche a costo di rallentare la produzione. In quest’ultimo caso, la diminuzione della quantità di petrolio disponibile sui mercati determinerebbe un aumento delle quotazioni, così che, da un lato, la Russia compenserebbe le entrate perse dalle mancate vendite dovute al tetto e, dall’altro, l’Europa finirebbe comunque per pagare un prezzo più alto del greggio acquistato da qualsiasi fornitore.

L’altro problema fondamentale dell’ennesimo progetto auto-lesionista di Bruxelles è la non collaborazione dei maggiori acquirenti di petrolio, Cina e India su tutti, e l’assenza di strumenti per spingerli ad aderire al “price cap”. Come per tutte le sanzioni imposte alla Russia dal febbraio scorso, Pechino e Nuova Delhi hanno respinto anche quest’ultima misura ideata in sede G-7. Questi e altri paesi reputano evidentemente più importanti i propri interessi energetici, tanto più che l’autolesionismo europeo ha permesso loro di trarre un duplice vantaggio. Il primo è la possibilità di ottenere il petrolio russo – così come il gas – a prezzi scontati e il secondo è il profitto ulteriore ricavato dalla rivendita di gas e greggio russi agli stessi paesi europei ad un costo maggiorato.

L’iniziativa senza precedenti di Bruxelles e Washington minaccia anche di destabilizzare il mercato petrolifero per via della manipolazione artificiale delle quotazioni. Non è un caso d’altronde che i paesi OPEC si oppongano fermamente a questo provvedimento. Recentemente, il cartello dei produttori, con cui collabora la stessa Russia nel quadro del cosiddetto OPEC+, ha ribadito la volontà di tagliare la produzione di greggio in risposta all’evoluzione della domanda. Il risultato, contrariamente a quanto chiedono da tempo gli Stati Uniti, sarà una diminuzione dell’offerta di petrolio, con effetti pesanti sul fronte delle quotazioni, soprattutto se si considerano i riflessi che avrà anche il “price cap”.

Il meccanismo deciso sabato dall’UE sarà soggetto a revisione bimestrale, in modo da “adattarlo alla situazione del mercato”. È possibile che il riesame delle conseguenze del provvedimento possa determinare un qualche allentamento del tetto se le conseguenze saranno più pesanti del previsto. Le voci critiche all’interno dell’UE potrebbero inoltre farsi sentire in maniera più insistente nel caso le quotazioni del greggio dovessero salire in maniera incontrollata. L’evoluzione del conflitto ucraino potrebbe a sua volta influire sulle scelte suicide dell’Europa, soprattutto se emergeranno spiragli per la diplomazia.

Nel frattempo, come sostengono quasi tutti gli analisti e i commentatori anche in Occidente, i due obiettivi prefissati dagli ideatori del “price cap” potrebbero non solo rimanere un miraggio, ma produrre gli effetti opposti. La Russia, per cominciare, continuerà a disporre delle risorse per “finanziare la guerra in Ucraina”, anche perché, secondo le previsioni del ministero dell’Economia, Mosca entro fine hanno avrà accumulato entrate pari alla cifra record di 338 miliardi di dollari grazie alle esportazioni energetiche.

Allo stesso modo, i tentativi di garantire un equilibrio dei flussi petroliferi sui mercati internazionali e la stabilità dei prezzi per combattere l’inflazione sono destinati probabilmente a fallire. Se la Russia taglierà la produzione in risposta al “tetto” potrebbero prospettarsi infatti sia una carenza di greggio a livello internazionale sia la conseguente ulteriore impennata delle quotazioni. Il rialzo dei prezzi registrato lunedì, primo giorno dell’entrata in vigore del “price cap” e dell’embargo UE, sembra già confermare queste ipotesi. Più che un tetto al prezzo del petrolio, insomma, all’Europa servirebbe urgentemente un tetto alla stupidità delle politiche anti-russe partorite dai burocrati di Bruxelles.

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