In ogni epoca storica, il processo di ribaltamento di un Ordine preesistente con un Nuovo Ordine ha avuto caratteristiche violente e i continui corsi e ricorsi storici li possiamo trovare anche oggi. Quello al quale stiamo assistendo in questa fase storica è infatti un passaggio di fase dai contorni geostrategici, un terremoto negli assetti della governance mondiale determinato dall’insostenibilità di un comando unipolare. Insostenibilità che è rappresentata da diversi elementi, il primo dei quali è la crisi ormai strutturale dell’impianto economico, con il fallimento delle ricette turbo-liberiste che, iniziate alla metà degli anni ’70 in Cile durante la dittatura pinochettista, sono diventate modello per l’economia globale soppiantando progressivamente l’economia sociale di mercato con il monetarismo.

Un modello concepito per finanziare le elites attraverso un generale trasferimento di ricchezze dalle classi popolari verso la cupola economico-sociale che ha ottenuto il risultato di ampliare le diseguaglianze e generare la crescita dei conflitti e non la loro armonizzazione.

A questo elemento se n’è aggiunto un altro non meno opprimente: l’uso scellerato della potenza militare come minaccia permanente sulle ambizioni di continenti, nazioni e popoli. Un comando unipolare che risolve con la forza la sua incapacità a disegnare un modello valido per tutti. La crescita della sua decadenza ha accentuato l’antagonismo verso ogni esperimento nazionale o regionale che non preveda la genuflessione verso l’impero centrale, che non ritenga obbligatoria la consegna delle proprie risorse al padrone del modello in cambio della sua protezione politico-militare.

Una replica del signoraggio medievale, nel quale gli ambiti di sovranità sono ridotti a  decimali. Chiuso ermeticamente ogni processo di autodeterminazione per i paesi della periferia dell’impero che ritengono di poter avere il diritto di scegliere il modello di sviluppo più consono alla loro cultura, tradizione, mentalità. Minacce e colpi di stato contro chi crede di valorizzare risorse e individuare i problemi a partire dalla lettura della storia, della geografia e della sua identità anche attraverso la lettura della mappa socioeconomica del suo territorio. O che pretende stabilire contenuti, interlocutori e forma negli scambi internazionali delle sue risorse. Contro chi, in altre parole, rivendica la sua sovranità.

 

I conti sbagliati con la storia

La crisi del modello statunitense, divenuto modello unico in forza del dominio militare, politico, ideologico, economico e tecnologico dell’impero, è la crisi del sistema di dominazione più potente della storia dell’umanità. Non solo per l’ampiezza geoterrestre e per la durata, ma anche per aver resistito alla nascita e alla crescita di altri Paesi che esprimono oggi anch’essi una potenza economica, politica, militare, demografica e finanziaria. Sono portatori di una idea dello sviluppo sostenibile e del modello di governance che non solo è diversa da quella dell’impero statunitense ma è alternativa ad esso.

C’è chi ritiene l’atto d’inizio della crisi degli Stati Uniti, sia stato il favorire l’ingresso della Cina nel WTO (2001). Forse, ma la decisione USA non era figlia di una vision includente, di un tentativo di allargare ad altri l’accesso al centro di comando del sistema-mondo e di condividerne la governance. Si pensò invece che Cina e India potessero risultare luoghi utili al decentramento produttivo di un modello che assumeva sempre più la dimensione finanziaria e non quella produttiva come generatore di ricchezza e che sarebbero servite come gigantesche incubatrici di mano d’opera a basso costo da affiancare a quelle importate dall’America Latina. Si ritenne possibile uno sviluppo controllato per paesi che sarebbero stati utili per la riorganizzazione internazionale del lavoro. Avrebbe stravolto il mercato, abbattuto il conflitto sociale e sindacale nocivo per l’applicazione delle teorie darwiniane proprie del capitalismo monetarista e facilitato, con la fine del welfare-state, il trasferimento di risorse fiscali dallo stato sociale alle aziende private.

L’egemonia statunitense sul mondo prevedeva la supremazia di Washington sul piano economico, politico e militare ma quella degli USA non è più la prima economia del mondo. Lo sviluppo cinese segna una supremazia tecnologica, una capacità di generare liquidità finanziaria ed un modello di relazioni economiche basato sulla reciproca utilità e privo di qualunque condizionamento politico, che espone nel One Belt One Road una vision strategica dell’interconnessione globale completamente opposta a quella USA. Da un lato sanzioni a 4 continenti, dall’altro una rete di collegamenti infrastrutturali, marittimi e terrestri basata su due direttrici principali: una continentale, dalla parte occidentale della Cina all'Europa del Nord attraverso l'Asia Centrale e il Medio Oriente, e un'altra marittima tra le coste del Dragone ed il Mediterraneo, passando anche per l'Oceano Indiano. C’è poi la crescita economica di India e Russia, così come di Iran, Turchia, Brasile, l’aumento dell’influenza regionale e il peso degli scambi che hanno ridotto sensibilmente la supremazia mondiale di Washington. Immettere ora alcuni miliardi di dollari dell’Occidente in Africa, nel tentativo di ridurre l’influenza cinese e russa, appare tardivo. E anche sotto il profilo militare le cose hanno preso un indirizzo diverso: le continue disfatte militari statunitensi in Somalia, Iraq, Afghanistan, Siria, la crescita militare russa e cinese propongono al pianeta equilibri militari diversi da quelli a sola guida statunitense.

 

La resistenza al cambio

Benché Washington e Bruxelles non sopportino l’idea, il mondo è cambiato. Basti pensare che il PIL dei BRICS è di 60 trilioni di dollari rispetto ai 37 trilioni dei paesi del G7. Ma non solo: il valore strategico è il cosa li determinano. Ebbene il PIL dei primi è quasi interamente basato sull’esportazione di materie prime, mentre quello del G7 è legato a mercati azionari, armi e petrolio. Ma senza le risorse dei primi, i secondi soccombono.

Questo perché l’Occidente ha trasformato la propria economia, sganciandola dalla produzione reale e agganciandola, invece, ad una liquidità monetaria senza fine.

Negli ultimi 15 anni la militarizzazione del dollaro ed altre armi economiche, sanzioni in primo piano, sono state usate contro Russia, Iran, Corea del Nord, Venezuela, Cina, Cuba, Nicaragua, Turchia, Libia, Siria e anche paesi alleati. Nel 2020 gli Stati Uniti erano in contrasto con la maggior parte dell’umanità, perché il liberalismo connesso al sistema militare industriale - che è il volano centrale dell’economia statunitense - per affermarsi ha bisogno del dominio totale e sono la destabilizzazione e le guerre - e non l’armonizzazione e la soluzione dei conflitti - a favorire la persistenza del sistema. “Il capitalismo sta morendo per overdose da sé stesso»” ha affermato il sociologo Wolfgang Streeck.

Dopo la crisi finanziaria mondiale del 2008, ormai il processo di de-dollarizzazione pesa nell’economia mondiale. Oggi il sistema di transazioni e le valute impiegate sono al riparo dell’influenza del Dollaro e, dunque, degli USA. Il sistema sanzionatorio applicato a 37 paesi si rivela ridicolo e controproducente per i riflessi sulla crisi energetica e alimentare globale che pone l’Occidente alla mercè delle risorse delle quali sono ricche i paesi che sono sanzionati.

Ci sono poi i riflessi politici della crisi dell’egemonia statunitense evidenziati dalla vicenda ucraina. Non c’è solo il rifiuto di molti paesi, rappresentanti la maggioranza dell’umanità, di aderire alle sanzioni contro la Russia, ma oltre a paesi strategicamente importanti nello scacchiere mondiale, anche internamente all’Occidente ci sono imprese “disobbedienti”. Nelle  imprese internazionali appartenenti alla classifica “Fortune500”, 281 operavano in Russia. Di queste, il 70% ha abbandonato o ha ridotto le proprie attività, ma il 30% non ha mosso nulla e continua ad operare. Di quelle che hanno la sede in altri Paesi fuori da USA e UE, solo il 40% ha abbandonato Mosca. Tra i gruppi industriali 28 hanno abbandonato o ridotto ma 4 continuano come prima e di quelli allocati in altri paesi 20 se ne sono andati e 20 sono rimasti. Insomma, la Russia prosegue accusando danni tutto sommato controllabili e nel frattempo ha nazionalizzato settori strategici anche attraverso la confisca e acquisizione degli impianti delle aziende sanzionatrici a cifre simboliche.

 

La soluzione è multilaterale

Il progressivo sfilarsi dei paesi latinoamericani e asiatici e la costituzione di Fori finanziari, politici ed economici dai quali gli USA e i suoi alleati sono estromessi, indicano come un’epoca, quella del pensiero unico e del Nuovo Ordine Mondiale iniziata nel 1989, si va chiudendo a geometrie variabili ma irrevocabili.

La crisi del modello unico può avere esiti imprevedibili. La consapevolezza della fine della sua crescita lo porta al tentativo di ridurre la crescita altrui come unico mezzo - affiancato alle sanzioni - per imporre ancora, nonostante tutto, il suo dominio sui mercati e sugli equilibri militari e geopolitici. E’, vista da Washington, una politica di sopravvivenza per un modello che diffonde tesi sul libero mercato ma che può esistere solo se questo viene truccato impedendo la competizione degli altri.

L’idea di un grande reset mondiale nel ciclo economico e nel dominio militare ha avuto già i suoi primi step. E’ iniziato con la gestione economica della pandemia - cha ha favorito le grandi aziende, mandando al macero le piccole e infliggendo severe perdite alle medie - e prosegue adesso sul piano militare con l’incremento della guerra in Ucraina, l’ulteriore espansione ad Est della NATO, oltre alla minaccia su Taiwan. Di fronte al rischio di perdere il suo dominio l’Occidente considera ogni strada: la guerra globale non è più una minaccia ma un’opzione.

Ma il multilateralismo è l’unica uscita da una crisi di governance che ha accentuato il suo carattere irreversibile con una crisi economica lunga 15 anni, (dunque strutturale e non congiunturale) un aumento dei conflitti armati e l’approfondimento delle diseguaglianze. Lo sfondo politico di questo nuovo mutamento generale della storia definito oggi come multilateralismo sta nel convincimento diffuso di come il capitalismo imperiale non sia una risorsa per il genere umano, bensì il suo punto di non ritorno. Non c’è nessuna crescita possibile per gli esclusi, non c’è nessuna spinta ad ampliare democrazia, diritti e gestione delle risorse. E’ in campo un’idea del mondo multipolare alla quale l’Occidente che segue gli USA nel suo modello distruttivo risponde riaffermando con la forza una idea del dominio di natura unipolare.

Il modello imperiale, del resto, non prevede l’equilibrio ma lo squilibrio; perché è lo squilibrio che genera contrasti ed i contrasti portano alle guerre. Che distruggono risorse, culture, popoli e paesi, ma convengono a chi vende le sue armi per i morti altrui, guadagna con la distruzione dei paesi prima e con la loro ricostruzione poi, e le combatte a casa degli altri invece che subirle nella propria.

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