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Lo scontro tra Donald Trump ed Elon Musk, passati in pochi giorni da amici e nemici e che rischia di trasformare i due un tempo alleati in prossimi avversari (Musk si propone di fondare un nuovo partito) ha riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Un po’ perché appare una buona arma di distrazione di massa dal terribile genocidio sionista a Gaza e un po’ perché la nota di colore riveste sempre un’attrazione irresistibile per una informazione che punta al gossip come narrazione alternativa al pubblico interesse.

La questione dello scontro andrebbe divisa comunque in due aspetti: quello della forma,  molto trattata dal main stream, e quello della sostanza, decisamente passata sotto tono.

E’ vero che il circo mediatico del potere in versione pubblica di Washington ha nei due personaggi due delle maggiori attrazioni, ma è altrettanto vero come la rottura sia avvenuta nei contenuti della politica economica e fiscale, nel ruolo stesso che dovrebbe ricoprire il miliardario di origine sudafricana e sul suo effettivo peso decisionale.

Quella tra Donald Trump ed Elliot Musk è una storia che sin dall’inizio portava scritta la sua fine. Due personaggi istrionici in costante ricerca di visibilità e senza nessuna remora per i danni collaterali che questa infligge, difficilmente potevano convivere a lungo. Non nello stesso ambiente, non nello stesso periodo e men che mai nello stesso Esecutivo.

Musk vuole il ruolo di kingmaker, non ci sta a figurare come un mero cortigiano di Trump. Aspira semmai ad esserne il successore. Trump, dal canto suo, non tollera l’indipendenza di figure influenti nel suo campo d’azione – che è la destra - e potrebbe vederlo come una minaccia o un traditore. Sembrerebbe un timore non del tutto infondato, vista appunto la minaccia di Musk di fondare un proprio partito; se succedesse, inevitabilmente dividerebbe l’estrema destra trumpiana, recando così un oggettivo per quanto indiretto vantaggio ai democratici che potrebbe costare l’annunciata terza candidatura al tycoon.

Ma la minaccia potrebbe essere solo il volto coperto di una possibile trattativa sui poderosi contratti di Musk con la pubblica amministrazione statunitense, che hanno messo la Casa Bianca, il Pentagono, la NSA e la CIA nelle condizioni di non poter fare a meno della rete satellitare di Musk, che il magnate sudafricano utilizza come vero e proprio strumento di lotta per far prevalere i suoi interessi.

I due hanno diversi tratti in comune. Sono fascisti 3.0: lo sono per indomita ignoranza, ovvero senza nemmeno l’alibi di un impianto culturale-filosofico-ideologico sullo sfondo. Sono istintivamente ed endocrinologicamente fascisti. Lo sono perché darwiniani nella lettura dell’organizzazione sociale (selezione naturale della specie) razzisti e suprematisti, misogini ed ignoranti. Sono l’espressione più pura di quel feudalesimo tecnologico del quale parla Yanis Varoufakis. Condividono l’idea di un uomo solo al comando. Esprimono identico disprezzo per la politica, i suoi riti, le sue regole e per l’idea che le porzioni di società debbano trovare tutte rappresentazione, visto che auspicano la supremazia da parte delle classi alte sulle classi lavoratrici e disagiate.

Militanti indefessi della comunicazione isterica, ritengono che ogni loro pensiero, gesto, parola, persino sensazione, debba essere comunicata e placano il loro ego ipertrofico con una comunicazione permanente, dai tratti compulsivi e contradditori, fondata solo sulla logica della comunicazione ossessiva a copertura di ogni spazio mediatico attraverso la quale inviano messaggi diretti e trasversali.

Sono avversari nelle rispettive reti di social media (Truth Social di Trump e X, ex Twitter, di Musk) con il secondo in netto vantaggio sul primo, che ha però l’autorevolezza di essere il media privato del Presidente degli Stati Uniti.

 

L’economia, due ricette per un disastro

Hanno certamente un diverso approccio nella lettura sistemica dell’economia. Trump è un uomo d’affari, abituato anche per forma mentis alla prevalenza della genialità imprenditoriale ma anche alla mediazione necessaria con le forze sociali, per quanto fastidiosa. Musk ritiene invece che sia la tecnologia, il suo utilizzo smodato e penetrante nelle dinamiche individuali e collettive a dover rappresentare la società.

Una fiducia cieca quanto interessata nell’innovazione tecnologica che, vista dal suo angolo di visuale, dovrà sostituire tutti i processi lavorativi e divenire il cemento delle nuove aggregazioni sociali. Trump vuole rappresentare tutti, l’intero popolo americano, Musk non ha alcun interesse nella rappresentazione, giacché non ha nemmeno interesse nel rapporto di delega tra elettori ed eletti; per lui, semplicemente, gli affari sono una guerra tra vincitori e vinti ed è chiaro da quale delle due parti si collochi.

Non a caso Musk è osteggiato da Steve Bannon, il teorico neonazista che ha contribuito fortemente alla costruzione dell’impalcatura ideologica del trumpismo. Musk non cerca una ideologia a rappresentare un modello, dal momento che ritiene la tecnologia in sé (che lui controlla in alcuni dei segmenti più importanti come lo sviluppo aerospaziale e il mercato dell’elettrico) il modello auspicabile.

Le divergenze più serie riguardano la questione principale dell’economia statunitense, ovvero il debito soverchiante che, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, vede come ipotesi plausibile un default degli Stati Uniti. Default che avrebbe conseguenze incalcolabili sull’intero sistema economico globale, data la non solvibilità del debito contratto con decine di governi, centinaia di banche e di fondi e migliaia di investitori internazionali. E quand’anche gli USA riuscissero ad evitare il default con nuove, straordinarie ondata di emissioni di titoli del Tesoro, non farebbero che spostare nel tempo il redde rationem di una economia fallita di un sistema in crisi, perché i titoli emessi per finanziare il debito andrebbero poi restituiti con interessi forse insostenibili, oltre a generare il crollo della fiducia nel Dollaro e nei BTP USA come bene rifugio, distruggerebbe la credibilità e l’affidabilità dell’economia statunitense e dell’idea di contribuire a finanziarla da parte dell’intero mondo.

L’obiettivo di Trump è quello di mutare in profondità la struttura del PIL nordamericano, oggi composto all’80% dai consumi e al 20% dalla produzione. Per Trump il recupero dell’economia passa per una forte modifica della bilancia commerciale, che vede le importazioni di gran lunga superiore alle esportazioni. Le politiche (termine per nobilitare trattative in modalità gangster) sui dazi dovrebbero portare a stimolare il ritorno negli USA della produzione industriale, cosa oggettivamente impossibile per le modifiche profonde intervenute nelle classi lavoratrici statunitensi e, comunque, necessarie di almeno un ventennio per una parziale riconversione.

Invece per Musk l’abbattimento del debito va conseguito attraverso il sostanziale abbattimento delle imposte per le imprese che dovrebbero così ricevere un impulso alla generazione di investimenti e, soprattutto, attraverso la fortissima contrazione della spesa pubblica che parta dalla riduzione draconiana dell’apparato federale fino ad arrivare al venir meno di tutti i programmi di assistenza sociale. Una ricetta che porterebbe la povertà negli Stati Uniti (già oggi vicina al 40% della popolazione) a livelli non sostenibili per la già sofferente coesione sociale, necessaria alla sopravvivenza di qualunque governo in qualunque parte del mondo, a maggior ragione in una società spaccata in due dal suprematismo razzista, dal classismo e dalla crisi economica e sociale.

Si può pensare che Musk sia un imprenditore e Trump un presidente, dunque che i pesi siano chiari. Ma Musk non è un uomo, è un sistema di potere. L’accelerazione tecnologica ha fatto di lui un imprescindibile. Controlla parte del cielo e del cyberspazio, regola le reti Wi-Fi di metà degli USA. Davvero si può non considerarlo una potenziale minaccia? E se dopo di lui si ribellassero gli altri giganti tech, regolatori di infrastrutture civili e militari, di presidi industriali e sanitari?

Dal canto suo Trump non è convinto di mettere la sicurezza nazionale nelle mani di un privato che potrebbe disattivare qualunque infrastruttura difensiva solo per dimostrare che comanda lui.

Ma Trump e Musk sono destinati a reincontrarsi e a sostenersi reciprocamente, perché la struttura operativa di Musk è decisiva per l’affermazione di Trump. Non c’è solo un rapporto di reciproca utilità per i rispettivi affari e vantaggi che dalla collaborazione mutua ricavano, c’è anche la certezza di come nessuno dei due, senza l’altro, potrebbe farcela a toccare la soglia più alta delle proprie ambizioni.

In un mondo che consuma con voracità antropofaga miti e personaggi, riducendo all’estemporaneo ciò che un tempo era storico, che assegna alla congiuntura il ruolo di prospettiva, l’attenzione a non sbagliare mosse dev’essere assoluta. Dall’affiancamento alla successione non tutto scorre. Dall’essere i due testimonial eccellenti della nuova destra ideologica ad altissima tecnologia a diventare due falliti di successo, il passo è breve.