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Per la quarta notte consecutiva dall’attacco terroristico di settimana scorsa in Kashmir, le forze armate di India e Pakistan si sono scambiate colpi di arma da fuoco lungo la linea del confine di fatto che divide i due paesi asiatici. L’escalation dello scontro dopo l’assassinio di 26 turisti ha già raggiunto livelli molto pericolosi, con Nuova Delhi che potrebbe bombardare il Pakistan e ha preso la decisione senza precedenti di sospendere un fondamentale trattato sulla condivisione delle acque del fiume Indo, mentre da Islamabad è arrivata la minaccia esplicita del possibile uso di armi nucleari. Sull’episodio di sangue nella regione contesa non c’è ancora chiarezza, ma le tensioni che sono subito prevedibilmente esplose vanno senza dubbio ricondotte sia alle drammatiche vicende post-coloniali sia, soprattutto, alle cambiate dinamiche strategiche degli ultimi due decenni che hanno visto esplodere la competizione tra Cina e Stati Uniti.

Sull’orlo della guerra

L’attacco terroristico è avvenuto martedì scorso dei pressi della località di Pahalgam, nella popolare destinazione turistica della valle di Baisaran, e le vittime sono tutti cittadini indiani, a parte uno di nazionalità nepalese. Il governo indiano ha attribuito la responsabilità dell’accaduto a quello pakistano, perché l’organizzazione che avrebbe portato a termine l’azione, ovvero il cosiddetto “Fronte di Resistenza”, collegato al gruppo terrorista “Lashkar-e-Taiba” (LeT) che opera dal territorio pakistano, è stato sostenuto, almeno in passato, da sezioni dell’apparato militare e di intelligence di Islamabad.

Il giorno successivo all’attacco, il governo indiano ha deciso di espellere buona parte della rappresentanza diplomatica pakistana, inclusi i militari di stanza presso l’ambasciata di Nuova Delhi, così come tutti i cittadini di questo paese, invitati ad andarsene entro il 29 aprile. Inoltre, sono stati chiusi i punti di frontiera con il Pakistan e, come già anticipato, il primo ministro di estrema destra, Narendra Modi, ha bloccato l’implementazione del trattato sulle acque dell’Indo.

Firmato nel 1960 con la mediazione della Banca Mondiale, questo documento stabilisce i diritti e i doveri di India e Pakistan su un corso d’acqua cruciale per popolazioni ed economie di entrambi i paesi. Delhi non ha la facoltà di fermare del tutto l’afflusso di queste acque al Pakistan, ma anche solo la riduzione della quantità disponibile potrebbe creare enormi problemi. Più dell’80% dell’agricoltura e un terzo dell’energia idroelettrica generata dal Pakistan dipendono dalle acque dell’Indo. Mai prima d’ora l’India aveva decretato la sospensione del trattato, nemmeno durante le varie guerre e scontri a fuoco che hanno segnato la storia dei rapporti tra questi due paesi negli ultimi decenni.

Islamabad, da parte sua, ha definito lo stop del trattato un vero e proprio “atto di guerra” e ha risposto attuando contromisure immediate, tra cui la chiusura del proprio spazio aereo alle compagnie indiane, l’interruzione dei traffici commerciali con il vicino, l’ordine di espulsione dei cittadini indiani e la sospensione dell’Accordo di Simla del 1972. Quest’ultimo aveva seguito la guerra indo-pakistana dell’anno precedente e fissava la “Linea di Controllo” come confine di fatto tra il Kashmir controllato dall’India e quello controllato dal Pakistan, rimandando a un negoziato futuro la demarcazione definitiva del territorio conteso.

Come ha ricordato nei giorni scorsi il primo ministro pakistano, Shebhaz Sharif, anche il suo paese ha pagato e continua a pagare un conto salatissimo al terrorismo fondamentalista. Le accuse all’India di fomentare, se non appoggiare più o meno direttamente, gruppi come i separatisti del Belucistan o i Talebani pakistani (“Tehreek-e-Taliban”) non sono nuove. Dall’inizio dell’anno, si sono registrate in Pakistan già più di 200 vittime, per lo più membri delle forze di sicurezza, in seguito ad attentati e scontri armati con queste organizzazioni terroristiche.

Dopo una riunione del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, il governo di Islamabad ha anche dichiarato che le proprie forze armate sono “totalmente pronte e in grado di difendere la sovranità e l’integrità territoriale”. Il Pakistan ha chiesto infine un’indagine imparziale sull’attentato. Il ministro della Difesa pakistano, Khawaja Asif, ha invece affermato che il suo governo ritiene ci siano elementi per sostenere che l’attacco sia una “false flag” organizzata dall’India, mentre lunedì ha avvertito che l’India potrebbe in qualsiasi momento ordinare una “incursione militare” in Pakistan. Quanto al Fronte di Resistenza per il Kashmir, in un comunicato emesso domenica ha negato “inequivocabilmente” ogni responsabilità, spiegando che la precedente rivendicazione era dovuta a un attacco informatico per mano dell’intelligence indiana.

Il governo del premier Modi ha in ogni caso avviato una massiccia campagna repressiva nel Kashmir controllato dall’India. Secondo notizie riportate dalla stampa internazionale, più di 500 persone sarebbero state fermate e interrogate. Un migliaio invece sono le perquisizioni eseguite finora in abitazioni e altri edifici. Alcune case di “sospetti militanti” sono state rase al suolo e, in generale, la campagna in atto si sta accompagnando a un innalzamento dei toni della retorica ultra-nazionalista che vede coinvolti anche i partiti di opposizione e la stampa ufficiale indiana.

Kashmir e fondamentalismo indù

Il Pakistan ha dunque criticato duramente l’amministrazione Modi, ribadendo le accuse di alimentare i sentimenti anti-musulmani in India per scopi politici. L’attentato di settimana scorsa, infatti, al di là delle responsabilità materiali, si inserisce in un clima tossico creato negli ultimi anni dai governi del partito fondamentalista indù BJP. Modi ha messo al centro del proprio progetto politico la promozione del suprematismo induista per dividere la popolazione indiana lungo linee settarie e favorire l’implementazione di un’agenda neo-liberista in ambito economico. L’altra faccia della medaglia è appunto la criminalizzazione della minoranza musulmana, concretizzatasi in numerosissimi episodi di violenza in questi anni.

Questa deriva ha avuto il suo culmine nell’agosto del 2019, quando, poco dopo la seconda vittoria consecutiva nelle elezioni generali, Modi ha revocato l’autonomia speciale di cui godeva lo stato di Jammu e Kashmir per dividerlo in due entità (Ladakh e Jammu e Kashmir), ridotte allo status di “territori” sotto il controllo diretto del governo centrale. La decisione anti-costituzionale si era accompagnata a una campagna repressiva contro i leader politici musulmani del Kashmir. In questo modo, Delhi intendeva anche rafforzare la posizione del suo paese nei confronti di Cina e Pakistan, attraverso una maggiore presenza di militari indiani in entrambi i “territori”. Quello di Ladakh confina infatti con la Cina e, meno di un anno più tardi, le forze armate dei due paesi avrebbero dato vita a un violento scontro armato in seguito a una disputa di frontiera.

L’attentato di settimana scorsa nella valle di Baisaran è avvenuto in concomitanza con la visita in India del vice-presidente americano, J. D. Vance, e, visto il contesto generale, la coincidenza è apparsa a qualcuno sospetta. Il vertice con Modi doveva servire in primo luogo a ribadire i legami tra USA e India in funzione anti-cinese e dopo che negli ultimi anni Nuova Delhi ha adottato una politica estera più equilibrata, sfruttando le opportunità economiche e strategiche derivanti dalla guerra in Ucraina, attraverso l’intensificazione dei rapporti con Mosca, e mandando segnali di apertura verso Pechino.

L’aggressività della risposta del governo Modi all’attacco terroristico in Kashmir rivela ancora una volta l’intenzione di riequilibrare i rapporti con il Pakistan, sfruttando gli sviluppi regionali e globali più recenti per consolidare la posizione strategica dell’India in Asia meridionale. Tutto questo con l’appoggio di Washington, dove l’amministrazione Trump sta a sua volta rimescolando le carte con alleati e rivali in preparazione di un futuro conflitto con la Cina.

USA-Cina, l’intreccio strategico

La rivalità crescente tra Washington e Pechino negli ultimi due decenni ha attribuito alla crisi del Kashmir un’importanza che va ben oltre i confini regionali. Rivalità che ha allo stesso tempo stravolto gli equilibri precedenti la “guerra al terrore” in relazione agli orientamenti di politica estera e alle alleanze di India e Pakistan. A partire almeno dalla presidenza di George W. Bush, gli Stati Uniti hanno cercato di integrare l’India in un fronte anti-cinese, elargendo alla classe dirigente di questo paese ampie concessioni, come l’accesso ad armamenti sofisticati e tecnologia nucleare civile. In questo contesto vanno citati i vari accordi bilaterali che hanno permesso lo scambio di informazioni militari e di intelligence e lo stazionamento temporaneo di “asset” militari americani in territorio indiano, nonché la partecipazione di Delhi al cosiddetto “QUAD”, la quasi alleanza militare con USA, Giappone e Australia diretta contro la Cina.

Per contro, queste nuove dinamiche hanno determinato un allontanamento tra Stati Uniti e Pakistan, ovvero il nemico storico dell’India. Mentre avvertiva dei pericoli insiti nello stravolgimento degli equilibri regionali, Islamabad riallacciava rapporti più stretti con “l’alleato per tutte le stagioni”, cioè la Cina. Il consolidamento dell’asse indo-americano ha spinto in altre parole il Pakistan sempre più verso Pechino, che ha coinvolto questo paese nei propri progetti della Nuova Via della Seta o “Belt and Road Initiative” (BRI). Primo fra tutti il “Corridoio Economico Sino-Pakistano” (CPEC), una rotta destinata a collegare attraverso infrastrutture varie il porto pakistano di Gwadar, affacciato sul mare Arabico, con le regioni cinesi occidentali, evitando le rotte marittime più a oriente ed esposte al possibile blocco americano in caso di guerra.

Il controllo diretto del Kashmir da parte indiana era appunto e almeno in parte la risposta al CPEC e alla rafforzata partnership tra Cina e Pakistan. Una strategia appoggiata in pieno dagli Stati Uniti, col risultato di aggravare le tensioni già esplosive tra India e Pakistan, ma anche tra indù e musulmani nella società indiana. Fino a dove il governo di Narendra Modi intenderà spingersi nella crisi in atto con Islamabad lo si vedrà probabilmente nei prossimi giorni. Per il momento, l’Asia meridionale resta sull’orlo del baratro, con lo spettro di un’escalation militare che potrebbe portare, nella peggiore delle ipotesi, alla guerra aperta tra due potenze nucleari.