L’invio di carri armati da combattimento al regime di Zelensky è l’ultima linea rossa oltrepassata dai paesi NATO nel conflitto ucraino. Il via libera dei governi di Stati Uniti e Germania apre la strada alla fornitura di mezzi che, di per sé, faranno poco o nulla per ribaltare gli equilibri della guerra. L’aspetto cruciale della decisione rimane piuttosto quello della reale strategia – o assenza di essa – su cui dovrebbe basarsi lo sforzo occidentale a favore della causa ucraina.

L’arrivo dei “tank” tedeschi (Leopard) e americani (Abrams) sul campo di battaglia rappresenta oggettivamente un nuovo livello di provocazione nei confronti di Mosca. In particolare perché l’approvazione da parte di Berlino e Washington è arrivata letteralmente pochi giorni dopo che esponenti di entrambi i governi e dei rispettivi vertici militari erano sembrati escludere l’opzione del trasferimento di carri armati a Kiev, in primo luogo per evitare l’aggravarsi dello scontro con la Russia.

 

Sul piano dell’efficacia di questi ultimi come arma di difesa o di contrattacco per recuperare i territori perduti, ci sono molti aspetti che rendono l’iniziativa NATO quanto meno discutibile. L’ex ispettore ONU e analista militare americano, Scott Ritter, in una lunga analisi per il sito indipendente Consortiumnews ha scritto che i Leopard e gli Abrams non avranno lunga vita nelle attuali condizioni di guerra sul fronte ucraino. A suo dire, “se i russi non li distruggeranno, a farlo saranno i problemi di manutenzione”.

Un’altra incognita è quella dell’addestramento del personale ucraino addetto alla conduzione di questi mezzi. Si tratta infatti di carri armati molto diversi da quelli in dotazione delle forze armate ucraine, che richiedono perciò un lungo periodo preparatorio. Sempre Ritter fa notare inoltre che in Ucraina sono arrivati o dovrebbero arrivare anche altri modelli di “tank” impiegati dai vari eserciti europei, così che i militari ucraini dovranno destreggiarsi con quattro o cinque sistemi differenti ed altrettanto molteplici problematiche, trasformando la donazione NATO in una sorta di “incubo logistico”.

Tutto ciò accadrà sul campo dopo che i carri armati saranno effettivamente giunti in Ucraina. Le tempistiche di consegna sono infatti un’altra incognita poco discussa dalla stampa ufficiale. L’amministratore delegato della società costruttrice dei Leopard tedeschi un paio di settimane fa aveva ad esempio avvertito che sarebbero stati necessari mesi per adattare i mezzi da inviare in Ucraina.

Per quanto riguarda gli Abrams americani, la testata on-line Politico ha scritto che probabilmente l’amministrazione Biden ricorrerà a un programma federale che finanzia l’acquisto di equipaggiamenti militari a favore Kiev. I mezzi non verranno quindi prelevati dall’arsenale USA. Se così fosse, i tempi non saranno di certo brevi. Anche nel caso il Pentagono decidesse di privarsi dei “tank” già a propria disposizione, il trasferimento in Ucraina non avverrebbe comunque a breve. Ancora nell’articolo di Politico si legge che le forze armate americane dovrebbero prima rimuovere “sistemi di comunicazione sensibili” e altri equipaggiamenti di cui gli Abrams sono dotati.

Va anche ricordato che solo pochi giorni fa il sottosegretario alla Difesa americano, Colin Kahl, di ritorno da una visita a Kiev aveva spiegato dettagliatamente la sostanziale inutilità degli Abrams per l’esercito di Zelensky. Costi stratosferici, consumi elevatissimi, difficoltà operative senza adeguato addestramento e complessità dei programmi di manutenzione fanno di questi mezzi “un sistema probabilmente non adeguato” per l’Ucraina, aveva sostenuto.

Tutte queste problematiche non sono evidentemente svanite con la decisione di Biden e del cancelliere tedesco Scholz di approvare l’invio dei rispettivi “tank”. A spiegare l’iniziativa possono essere perciò solo due ipotesi: la disperazione del regime ucraino e dei suoi sponsor di fronte ai progressi decisivi dell’offensiva russa oppure un piano allo studio in sede NATO per partecipare a breve in maniera diretta al conflitto in corso. Ovvero con uomini in grado di manovrare i mezzi a disposizione dell’Ucraina.

Quello che continua a sconvolgere nell’osservare le scelte tattiche occidentali è l’apparente assenza di una valutazione realistica delle conseguenze della continua escalation che la NATO sta provocando dopo undici mesi di guerra. Il blog indipendente The Saker ha spiegato che il persistere dell’invio di materiale bellico a Kiev non potrà comunque alterare le sorti del conflitto e se, invece, “l’Occidente dovesse mobilitare forze abbastanza consistenti da fare la differenza, ciò innescherebbe inevitabilmente una guerra su vasta scala in Europa che [la NATO] non potrà vincere”.

Lo stesso blog elenca i mezzi che la NATO potrebbe eventualmente mettere in campo, dai missili subsonici e da crociera fino a un “piccolo” contingente di terra o un certo numero di caccia, ma le forze convenzionali non sarebbero in ogni caso sufficienti contro la Russia. The Saker conclude sostenendo che, a quel punto, “i comandanti americani si troverebbero davanti a una scelta ancora peggiore: sconfitta o guerra nucleare”.

Il rischio dell’escalation in corso è stato valutato da un’altra prospettiva da Scott Ritter. L’invio di carri armati a Kiev, secondo la versione NATO, dovrebbe servire a organizzare una controffensiva ucraina in primavera per ricacciare le forze russe oltre i confini precedenti l’inizio delle operazioni. In questo modo, quanto meno in teoria, l’Ucraina avrebbe le capacità di “espellere la Russia dai territori annessi tramite referendum lo scorso settembre (Lugansk, Donetsk, Zaporizhia, Kherson)”, creando “potenzialmente le condizioni per cui Mosca potrebbe ricorrere all’utilizzo di armi nucleari”.

Secondo la dottrina ufficiale adottata dal governo di Mosca, l’uso dell’atomica è giustificato, tra l’altro, da una minaccia all’esistenza stessa della Federazione, anche se di natura convenzionale. L’ex presidente russo Medvedev ha proposto in altri termini la questione ma con identico risultato catastrofico: “Nessuno [dei paesi NATO] sembra comprendere che la sconfitta di una potenza nucleare in un conflitto convenzionale può portare a una guerra nucleare”.

La decisione americana di liberare i propri carri armati Abrams appare comunque e in primo luogo come una manovra per convincere la Germania a inviare i suoi Leopard e, di conseguenza, per sbloccare questi stessi mezzi che molti paesi NATO in Europa utilizzano ed erano pronti a loro volta a consegnare a Kiev dietro approvazione di Berlino. La Germania aveva infatti insistito che i Leopard sarebbero stati messi a disposizione dell’Ucraina solo se gli USA avessero acconsentito a fornire i loro Abrams. Il governo tedesco è stato a lungo indeciso sulla questione, mostrando parecchie perplessità soprattutto per le implicazioni che la decisione avrebbe avuto sul possibile allargamento del conflitto e sulle future relazioni con la Russia.

A risultare decisive sono state alla fine le pressioni degli Stati Uniti e dei paesi più ferocemente anti-russi in Europa, come la Polonia e i mini-stati baltici. Nella maggioranza che sostiene il gabinetto Scholz, i Verdi e i Liberal Democratici (FDP) hanno a loro volta insistito per l’invio dei Leopard. C’è però un altro fattore da considerare e che ha agito probabilmente sull’inversione di rotta di Scholz. L’agitarsi di gran parte dell’Europa per alzare il livello dello scontro con Mosca attraverso la fornitura di materiale bellico sempre più sofisticato doveva cioè essere in qualche modo cavalcato da Berlino, alla luce delle ritrovate ambizioni da grande potenza della classe dirigente tedesca.

La Germania ha in altre parole approfittato della guerra in Ucraina per accelerare l’impulso alla militarizzazione iniziato quasi un decennio fa e il fatto di mostrare esitazioni mentre l’intera Europa sbava per la guerra contro Mosca avrebbe rischiato di aprire crepe pericolose nel vecchio continente. Il risultato sarebbe stato e potrebbe tuttora essere una rottura definitiva di un’Europa su cui Berlino intende esercitare la propria leadership per avanzare gli interessi globali del capitalismo tedesco.

Scholz rischia ad ogni modo di pagare molto cara la scelta dei Leopard, così come l’economia della prima potenza europea sta già scontando la scelta suicida di privarsi del gas russo su ordine di Washington. Questa consapevolezza deve essere piuttosto chiara nel palazzo della cancelleria e negli ambienti della SPD in genere. Quasi a limitare le conseguenze della decisione presa martedì, il cancelliere tedesco ha infatti messo subito a tacere le prime voci che ipotizzavano un futuro invio di aerei da guerra in Ucraina.

La smentita potrebbe tuttavia non rappresentare la posizione ufficiale della Germania da qui a qualche mese o settimana, quando il tracollo delle forze ucraine e l’umiliazione della NATO risulteranno sempre più difficili da nascondere anche per la macchina della propaganda occidentale. Il prezzo da pagare per avere ceduto la propria autonomia strategica agli Stati Uniti è d’alta parte elevato, quasi come quello derivante dall’avere come ministro degli Esteri una delirante nullità ultra-atlantista e guerrafondaia. In un intervento al Consiglio d’Europa a Strasburgo martedì, la numero uno della diplomazia tedesca, la leader dei Verdi Annalena Baerbock, ha ammesso l’esplosiva realtà dei fatti che lei stessa e il suo partito hanno contribuito a creare, affermando che l’Europa deve restare unita visto che “stiamo combattendo una guerra contro la Russia”.

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