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Nonostante sia ufficialmente in vigore un cessate il fuoco dallo scorso novembre, in Libano stanno proseguendo le operazioni militari ingiustificate da parte di Israele e con il totale appoggio degli Stati Uniti. L’aggressione di Tel Aviv, anche se di intensità decisamente inferiore rispetto al periodo più caldo del conflitto lo scorso autunno, serve a tenere alta la pressione su Hezbollah e i nuovi vertici politici e istituzionali libanesi, con l’obiettivo di liquidare la “Resistenza” sciita e consentire alle forze armate di detenere il “monopolio delle armi” nel paese dei cedri.

Il Libano è alla ricerca di un nuovo equilibrio interno dopo la campagna militare israeliana che ha indebolito il partito/movimento sciita attraverso l’eliminazione di molti dei suoi quadri dirigenti e, soprattutto, il suo leader storico Hassan Nasrallah. I contraccolpi di queste dinamiche, nonché della caduta del governo di Assad in Siria, si sono tradotte in un’espansione dell’influenza degli USA e dei loro alleati arabi in Libano. Ciò ha portato allo sblocco della crisi politica che durava da oltre due anni con l’elezione di un nuovo presidente, l’ex generale Joseph Aoun, fortemente voluto dall’Occidente, e la nomina di un nuovo governo, guidato dall’ex presidente della Corte Internazionale di Giustizia, Nawaf Salam, anch’egli tutt’altro che sgradito al fronte anti-iraniano.

Il nuovo gabinetto ha dovuto comunque includere esponenti di Hezbollah, così come dell’alleato sciita Amal, visti i rapporti di forza in parlamento e nel paese. Aoun e Salam si sono però subito adoperati per implementare le richieste di Stati Uniti e Israele, prima fra tutte l’eliminazione del potenziale militare di Hezbollah, appellandosi ai termini della tregua e alla risoluzione ONU 1701 su cui essa in buona parte si basa. Hezbollah dovrebbe cioè sgomberare tutte le proprie postazioni militari tra il confine meridionale con Israele e il fiume Litani (Leonte), mentre il secondo passo sarebbe appunto la consegna all’esercito regolare di tutte le armi e gli equipaggiamenti bellici a sua disposizione.

Queste richieste continuano a essere rivolte a Hezbollah nonostante sia Israele che resti in violazione della tregua ufficialmente in vigore. Le forze sioniste occupano tuttora cinque località strategiche nel Libano meridionale e, come accennato all’inizio, conducono bombardamenti nel paese, tra cui sulla capitale Beirut, nella totale impunità e sostenendo semplicemente che si tratta di operazioni necessarie per colpire esponenti o postazioni di Hezbollah.

Il primo ministro Salam e i vertici militari libanesi insistono nell’assicurare che i militari hanno preso possesso di gran parte dell’area di confine con Israele, dopo avere “confiscato” le armi di Hezbollah. Le truppe già dispiegate qui sarebbero composte da 6 mila uomini e si sta lavorando per portare il totale a 10 mila, come previsto dal cessate il fuoco. In sostanza, le uniche posizioni in cui l’esercito libanese non si è ancora insediato sono quelle occupate illegalmente da Israele. Tel Aviv, a sua volta, sfrutta questa lacuna per giustificare le proprie operazioni in Libano. A sovrintendere all’implementazione della tregua c’è una speciale commissione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, che però non muove un dito né ha emesso finora una sola dichiarazione di condanna per le centinaia di violazioni israeliane.

Negli ultimi giorni, in ogni caso, si è acceso il dibattito interno al Libano sulla sorte delle armi di Hezbollah e dello stesso movimento come forza militare. Il presidente Aoun ha ribadito che l’obiettivo resta quello di disarmare Hezbollah, ma questo processo dovrà avvenire tramite il dialogo e il negoziato. I suoi leader hanno mandato da parte loro messaggi di cauta apertura, ma un comunicato dell’ufficio stampa ha smentito la recente notizia diffusa dalla Reuters, secondo la quale Hezbollah sarebbe pronto ad aprire una discussione con il presidente circa il destino delle proprie armi nel caso Israele si ritirasse completamente dal Libano e cessasse del tutto gli attacchi nel paese.

Lo stesso Aoun ha poi scatenato un vespaio negli ambienti filo-occidentali e filo-israeliani domestici con la proposta di integrare in futuro i militanti di Hezbollah nell’esercito regolare. Deputati e sostenitori soprattutto del partito cristiano-maronita di destra Forze Libanesi si sono scagliati contro il presidente, denunciando qualsiasi iniziativa per risolvere in maniera concordata la questione delle armi di Hezbollah, a cui dovrebbe essere invece imposta con la forza la totale sottomissione all’autorità dello stato.

Molti osservatori hanno fatto notare come questo processo sia nella realtà estremamente difficile e delicato. Malgrado l’indebolimento di questi mesi, Hezbollah rimane una forza formidabile e ha un seguito molto consistente in Libano, non solo per le attività sociali e assistenziali che ha istituito in assenza di un vero e proprio stato, ma anche e soprattutto perché è di fatto l’unico baluardo contro il controllo e la sottomissione totale del paese agli interessi di Israele e Stati Uniti.

Una prova di forza da parte del governo o delle forze armate, verosimilmente con l’appoggio americano o israeliano, rischierebbe di far precipitare il Libano nuovamente in una sanguinosa guerra civile, cosa che peraltro determinate fazioni interne e lo stesso regime sionista vedrebbero con un certo favore per cercare di chiudere una volta per tutte i conti con Hezbollah e la “Resistenza”.

Al di là delle ambiguità, la condizione essenziale che potrebbe convincere Hezbollah a fare concessioni allo stato libanese è appunto il rispetto da parte di Israele delle condizioni stipulate con la firma della tregua dello scorso novembre. Ovvero l’abbandono di tutte le postazioni che occupa in Libano e la cessazione dei bombardamenti illegali che continua a condurre. Nelle dichiarazioni del presidente Aoun non sembrano esserci però al momento molti riferimenti alle responsabilità israeliane, anche se dietro le quinte sono in corso quasi certamente pressioni sul regime di Netanyahu per favorire un processo di normalizzazione in Libano.

Un ruolo chiave dovrebbe svolgerlo in teoria la Casa Bianca, ma Trump non sembra interessato a mettere alcun freno all’alleato israeliano, né in Libano né a Gaza. Anzi, l’inviata del presidente, Morgan Ortagus, nella sua recente trasferta mediorientale ha ribadito più volte pubblicamente che Hezbollah dovrà semplicemente rinunciare alle proprie armi, senza condizioni né concessioni in cambio. Questa “richiesta” rappresenta un vero e proprio ricatto nei confronti di tutto il Libano, perché vincola il trasferimento di aiuti economici a un paese in profondissima crisi alla resa sostanziale di Hezbollah. Simili posizioni non tengono però conto della realtà dei fatti e sono destinate, nella migliore delle ipotesi, a non produrre nessun risultato e, nella peggiore, a provocare un’escalation dello scontro sia sul fronte interno sia con lo stato ebraico.

Washington e Tel Aviv desiderano evidentemente la liquidazione di Hezbollah come elemento della “Resistenza” e di resistenza al controllo di USA e Israele del Medio Oriente. L’amministrazione Trump e Netanyahu sono inoltre incoraggiati in questo sforzo dalle recenti dinamiche regionali, a cominciare dal rovesciamento di Assad in Siria. Molto potrebbe dipendere anche dall’esito dei negoziati appena avviati tra Stati Uniti e Iran. La Repubblica Islamica, com’è noto, rappresenta il principale alleato e sostenitore di Hezbollah e, secondo alcuni, potrebbe usare l’arsenale bellico di quest’ultimo come elemento di scambio nella trattativa in corso.

In tutto questo, Hezbollah si ritrova a dover ridefinire il proprio ruolo in Libano dopo gli sconvolgimenti provocati dalla campagna militare israeliana, con l’assassinio di molti leader carismatici, la perdita dell’alleato siriano (Assad) e la possibile rinuncia a una dotazione bellica che costituisce il fattore chiave della sua forza. La causa della “Resistenza”, che si intreccia a quella del popolo palestinese sotto attacco del regime genocida sionista, continua tuttavia a essere estremamente popolare in tutto il mondo arabo e islamico, così che le basi per la ricostruzione e il rilancio di un movimento comunque tutt’altro che “liquidato” restano ben solide, al di là delle illusioni di Trump e dei suoi alleati in Medio Oriente.