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Da settimane, la striscia di Gaza è sotto un intensificato assedio delle forze armate israeliane, che non si limita al controllo delle vie d’accesso e delle risorse, ma che continua a prendere di mira in maniera diretta e deliberata la popolazione civile. L'operazione, spacciata come una risposta alla minaccia di Hamas, rappresenta in realtà il pretesto di cui ha bisogno il governo israeliano, sostenuto dalla coalizione di estrema destra guidata da Benjamin Netanyahu, per portare avanti un piano di conquista che va ben oltre quello ufficiale, ovvero il “contenimento” della minaccia terroristica. A conferma di ciò, recenti rivelazioni della stampa israeliana hanno mostrato come alcuni ministri del governo di Tel Aviv puntino non solo alla sconfitta di Hamas, ma all’annientamento stesso della presenza palestinese nella striscia.

Secondo il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, diversi ministri di destra hanno espresso l’auspicio che la questione dei prigionieri israeliani ancora in mano a Hamas trovi una “soluzione tragica e naturale”, ossia la morte di coloro che ancora sono in vita a Gaza. Una dichiarazione tanto scioccante quanto rivelatrice, anche se tutt’altro che sorprendente, che getta luce su un'agenda politica basata sull’idea che la sofferenza e il lutto generati da questo “sacrificio” possano essere strumentalizzati per giustificare una nuova occupazione permanente di Gaza. Lo schema è quello già ampiamente collaudato dai governi israeliani, dove la presunta minaccia alla sicurezza interna si traduce in una giustificazione per l’espansione degli insediamenti e l’imposizione di un controllo sempre più capillare e brutale.

Le forze armate israeliane hanno infatti avviato la costruzione di un'enorme base militare nel corridoio di Netzarim, una struttura che simboleggia l’intenzione di stabilire una presenza militare permanente nel cuore della striscia. Questo corridoio, inizialmente creato come via di collegamento tra nord e sud, è diventato oggi un’area militarizzata di 56 chilometri quadrati, da dove circa 300.000 palestinesi sono costretti a transitare essendo spinti verso sud dalle forze di occupazione, in una vera e propria manovra di pulizia etnica. Gli sfollati sono obbligati ad attraversare checkpoint, spesso con uomini arrestati e deportati in massa in centri di detenzione temporanea, dove, secondo testimonianze riportate sempre da Yedioth Ahronoth, subiscono torture e violenze fisiche.

A dimostrare l’orrore delle operazioni sioniste sono sempre i numeri delle vittime palestinesi: il 70% di esse, secondo dati riportati nei giorni scorsi dalle Nazioni Unite, è costituito da donne e bambini. Una percentuale che, in un sistema razionale e minimamente equo, non potrebbe essere ignorata o minimizzata come “effetto collaterale” di una guerra contro il terrorismo. Al contrario, questa cifra riflette l'intento di un'azione deliberata e mirata contro la popolazione civile, che punta a infliggere il massimo dolore e disperazione. La retorica della “guerra mirata a Hamas” si sgretola di fronte a un bilancio che coinvolge i settori più vulnerabili della popolazione, per lasciare spazio a una realtà, davanti agli occhi di tutto il mondo, che rivela il volto genocida di un’operazione pianificata con il preciso scopo di cancellare ogni presenza palestinese.

Il governo israeliano ha ripetutamente ignorato gli appelli internazionali per un cessate il fuoco e per la protezione dei civili. Anzi, le dichiarazioni dei membri dell’esecutivo e la continua espansione dei presidi militari sembrano confermare l’obiettivo di un’occupazione definitiva. L'avanzata dell’esercito nella striscia e l’espulsione forzata dei civili lasciano intendere un piano più ampio, in cui l’assedio a Gaza è solo la prima fase di un progetto di colonizzazione che prevede, in ultima istanza, la sostituzione della popolazione palestinese con insediamenti israeliani.

In questo contesto, la sorte dei prigionieri israeliani detenuti a Gaza diventa un elemento centrale. Il governo israeliano sembra intenzionato a sfruttare i prigionieri, e la loro morte, come strumento per rafforzare il consenso interno e giustificare la prosecuzione delle operazioni militari. La scelta di non tentare seriamente di negoziare il rilascio degli “ostaggi”, e di lasciare che il loro destino si consumi “tragicamente”, rivela un cinismo politico senza precedenti. Il dolore delle famiglie israeliane viene sacrificato sull’altare di un progetto espansionistico, dove la morte dei prigionieri diventa il “prezzo inevitabile” da pagare per consolidare il controllo di Gaza.

Le testimonianze riportate da Yedioth Ahronoth parlano di un governo che vede nella morte dei prigionieri una “soluzione naturale” al problema della resistenza palestinese. La morte in cattività degli ostaggi, spiega il quotidiano, sarà “assorbita nel mare di dolore” e sfruttata come giustificazione per non cedere le terre conquistate. Un approccio che mostra come il governo israeliano non abbia mai avuto interesse per un cessate il fuoco, ma solo per una vittoria totale e a qualsiasi costo.

Mentre le operazioni militari si intensificano, il supporto delle potenze occidentali, che da sempre garantiscono impunità a Israele, continua così a legittimare una politica di aggressione che non rispetta alcun limite umanitario o etico. Le violenze quotidiane, la distruzione sistematica delle infrastrutture civili, l’assedio alla popolazione civile dimostrano che l’obiettivo israeliano non è la sicurezza, ma l’annientamento della presenza palestinese. Netanyahu, sostenuto dai falchi dell’ultradestra, ha trovato nel conflitto l’occasione perfetta per portare avanti un programma di pulizia etnica che ha radici profonde, basato sulla completa negazione dei diritti del popolo palestinese.

L’articolo di Yedioth Ahronoth porta nuovamente alla luce anche la vergognosa disparità di trattamento riservata a Israele e a Hamas, visto che coincide con la notizia che gli Stati Uniti, su pressione di alcuni ambienti conservatori e influenti senatori repubblicani, hanno esercitato forti pressioni sul Qatar affinché ordini la chiusura dell’ufficio politico di Hamas, che ospita sul proprio territorio, e l’espulsione dei suoi leader. La presenza di questi ultimi a Doha deve essere denunciata e dichiarata come “non più accettabile” per via del fallimento dei negoziati sul rilascio degli “ostaggi” israeliani, attribuito interamente a Hamas.

Questo cambio di rotta arriva dopo anni in cui il Qatar ha agito come interlocutore principale, su mandato degli stessi Stati Uniti, per mantenere un canale di dialogo con Hamas in chiave anti-iraniana. Per il momento, il governo del Qatar e Hamas hanno smentito la notizia dell’espulsione, mentre Doha ha confermato solo di avere sospeso l’opera di mediazione nell’ambito delle trattative per una tregua nella striscia.

La vicenda dimostra comunque l’applicazione selettiva del giudizio morale da parte di Washington: mentre Hamas viene minacciato di espulsione e isolamento per presunte insincerità nei negoziati, il regime sionista – che rifiuta apertamente qualsiasi trattativa di tregua duratura e continua ad ampliare l’occupazione a Gaza – non solo non subisce alcuna critica significativa, ma viene invece appoggiato in pieno nelle operazioni genocide in corso. Netanyahu, insieme agli estremisti della sua coalizione, ha infatti deliberatamente sabotato ogni tentativo di mediazione, vedendo in questo conflitto l’occasione per assicurarsi la sua sopravvivenza politica e per giustificare lo sradicamento e l’annientamento della popolazione palestinese.

L’espulsione di Hamas dal Qatar, se fosse confermata, rischia in ogni caso di rivelarsi un boomerang per gli stessi Stati Uniti. In assenza di Doha come mediatore, Hamas potrebbe rivolgersi a paesi come l’Iran o la Turchia, che non solo offrono una sponda politica più vicina agli interessi palestinesi ma rappresentano anche una sfida diretta all’influenza americana nella regione. Il risultato potrebbe essere un’escalation ulteriore del conflitto e la completa destabilizzazione regionale, per di più in un momento in cui l’amministrazione Biden, pur tentando di evitare coinvolgimenti diretti, appare sempre più schiacciata dalle pressioni interne e internazionali per arrivare finalmente a una risoluzione del conflitto.