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L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, secondo caso di ritorno alla Casa Bianca nella storia dei 47 presidenti fin qui eletti, oltre a rappresentare un indubbio evento politico, più o meno atteso, per il volume della vittoria porta con sé un mutamento profondo del sistema politico statunitense. Perché non solo Trump vince nell’elezione dei grandi elettori come pure nel voto popolare ma, cosa di assoluta importanza, ha  una forte maggioranza al Senato che potrà presumibilmente sommare ad una maggioranza anche al Congresso.

 

Dunque Trump avrà un potere sostanzialmente assoluto, potendo oliare a suo piacimento la cinghia di trasmissione tra Casa Bianca e Parlamento. In questo quadro, si trasforma ipso facto un presidente in autocrate e lo si rende molto simile ai governanti di altri paesi che gli USA indicano come dittatori. Perché? Perchè si riduce al minimo quell’equilibrio di poteri che gli americani chiamano il sistema di check and balance, che consiste nell’equilibrio istituzionale tra pesi e contrappesi, studiato per limitare gli eventuali, possibili abusi di potere da parte dell’Esecutivo, in ultima analisi del Presidente.

Il fatto che questa configurazione si dia con un personaggio completamente estraneo al linguaggio, ai codici e ai metodi e persino all’estetica del potere, propri della tradizione politica democratica in senso lato, fornisce ulteriore allarme e diffuse preoccupazioni che sono variamente espresse dai media e dai partiti liberal e della sinistra woke. La quale, indifferente ai diritti sociali, è pronta ad avvertire la minaccia ai diritti civili, che però come quelli sociali regolarmente ignora quando governa, salvo poi accusare la destra di non fare quello che non ha fatto la “sinistra”.

Quello di Trump è un trionfo della destra ideologica, ma certo non si può dire che Biden fosse la sinistra. Quali sarebbero state le politiche “di sinistra” dell’amministrazione democratica? Fatte salve le orrende scene dei bambini in gabbia separati dalle madri, Biden ha sostanzialmente confermato le politiche di Trump verso l’immigrazione; ulteriormente inasprito il blocco contro Cuba venendo meno a quanto da lui stesso controfirmato durante la presidenza Obama; ha aumentato a dismisura le sanzioni verso tutti i paesi i cui interessi economici e i rapporti politici entrino in conflitto con quelli degli USA. In questi anni la politica estera statunitense, come da tradizione, è stata imperniata sul tentativo di ampliare il suo dominio e ridurre la sovranità altrui.

Guerre, sanzioni, minacce, golpismo, destabilizzazione dei paesi non allineati ai suoi voleri, aumento smisurato delle spese militari, ricerca di un conflitto nucleare sul teatro europeo, distruzione dell’Ucraina e aumento della disoccupazione e del disagio sociale interni conditi con assolutismo ideologico liberista. Questa è stata l’agenda liberal scelta da Biden e il risultato è che nessuno degli indicatori strutturali che misurano il disagio sociale degli States (e non i profitti dei lupi di Wall Street) è migliore di quando Biden entrò alla Casa Bianca.

Persino l’estetica del potere ne soffre. Trump è la figura più volgare ed ignorante della scena politica globale, non c’è dubbio. Ma Biden, che ha chiamato assassino, criminale di guerra, dittatore e figlio di puttana a diversi Capi di Stato e che ha esibito flautolenze davanti alla Regina d’Inghilterra, lo si può definire un raffinato?

Kamala Harris ha perso perché è stata imposta dal notabilato del partito e dai suoi finanziatori perchè non ha leadership e carisma personale. Perché il suo curriculum prima della Casa Bianca è pessimo, per essere stata osteggiata proprio dalla popolazione immigrata che ha visto in lei una arrivata che ha esercitato il suo potere proprio verso l’immigrazione. E’ stata candidata perché donna e nera, come se questo potessero rappresentare due elementi decisivi per le politiche o se fossero garanzie di un diverso agire rispetto ai maschi bianchi. Facile invece ricordare come l’unico presidente nero della storia USA abbia il record di guerre iniziate nonostante il preventivo Nobel per la pace e, altrettanto facile, ricordare come la punta peggiore del militarismo europeo atlantista e il nulla sotto l’aspetto delle politiche destinate alla protezione sociale delle fasce colpite dalla crisi del modello, ininterrotta dal 2008 ad oggi, sia stata raggiunta proprio dalle donne che governano in Europa, dalla Von der Layen in poi.

La Harris ha raccolto montagne di denaro e l’endorsement di tutti i vip della società dello spettacolo, ma non il voto degli spettatori dei concerti e dei film nei quali questa nicchia presuntamente intellettuale degli USA si esibisce. La  riproposizione di una ricchissima signora dell’establishment senza nessuna qualità da poter esibire ma con gravi responsabilità nell’assecondare le gravissime politiche di Biden (alle quali avrebbe dato continuità) e persino l’aver - con bizzarro senso della lealtà - scavalcato il suo Presidente mettendosi a disposizione di Obama, non hanno certo fatto aumentare i consensi nei suoi confronti. Ultimo, ma non da ultimo, la sua strategia del sorriso permanente, quasi fosse stampato, ha indispettito gli elettori che nella crisi sociale, economica, di prospettiva e di valori che devasta 4 americani su 10, ha rappresentato un affronto vero e proprio verso chi trova che non ci sia davvero niente da ridere. Il mondo visto dagli Hampton appare assai diverso da quello visto da Harlem.

Al contrario, Trump è apparso concentrato sulla necessità di riproporre una crescita economica che, sebbene legata a quella dei grandi complessi finanziari statunitensi, dei fondi speculativi e dei gruppi industriali classici, vuole puntare sull’agroalimentare, sulla meccanica e sul tessile il rilancio dell’industria nazionale e sull’idea di riportare parte della produzione statunitense delocalizzata in Asia e America Latina, sulla fine delle erogazioni miliardarie all’Ucraina e sulla riduzione dei costi NATO, da riconvertire in politiche economiche occupazionali. Negli USA dal 1994 si sono persi 36 milioni di posti di lavoro e ad oggi 700.000 persone dormono in macchina perché prive di un tetto.

Ebbene l’America rurale ed ignorante, la piccola provincia razzista e chiusa a tutto ciò che non le risulti familiare dal punto di vista identitario, il fondamentalismo cattolico e i negazionisti, l’antiscientismo e la xenofobia, brodo di cultura storico dei repubblicani, si è sommato alla rabbia dell’America depressa economicamente e socialmente, che avrebbe dovuto avere nei Democratici il proprio riferimento ma che, proprio da loro, è stata tradita. Questa somma di rabbia e depressione, di illusione e disillusione, ha trovato in Trump un elemento comune. Insomma il tycoon dagli orrendi capelli color carota ha saldato le due americhe: quella fedele ai repubblicani e quella delusa dai democratici.

Difficile quali saranno gli scenari internazionali destinati a subire una profonda modificazione con Trump, ma certo la sua assoluta ignoranza ed imprevedibilità non rendono il panorama sereno. L’agenda di politica estera prevede Cina, Europa, Iran, Russia e America latina e forse cercherà di rompere l’unità dei BRICS utilizzando l’India e il Brasile. Da dove inizierà non è chiaro, forse con l’Ucraina, ma non è detto. Le fanfaronate sulla possibilità di fermare la guerra in un’ora dovranno misurarsi con un quadro che non è più quello di due anni fa. I russi hanno di fatto annesso alla Federazione l’intero Donbass e non torneranno indietro. Inoltre, nessuna cessazione delle ostilità sarà possibile se resta l’obiettivo di entrata nella NATO per Kiev, men che mai dopo aver visto cos’è realmente l’Occidente e quanto persegua con tutto l’odio di cui è capace la sconfitta militare e politica di Mosca.

Ci vorranno garanzie serie e impegni formali: trattati e non balletti, volgarità e gaffes.