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La vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane di martedì e, ancora di più, il logoramento prodotto dal disastroso progetto ucraino sembrano avere dato il colpo di grazia all’impopolare governo “semaforo” tedesco del cancelliere Olaf Scholz. La crisi a Berlino non è ancora ufficiale, ma l’esplosione pubblica dello scontro politico tra i tre leader della coalizione rende estremamente improbabile la sopravvivenza dell’esecutivo nei prossimi mesi.

La questione del bilancio per il 2025 aveva da tempo creato tensioni nella maggioranza, con i Liberal Democratici (FDP) del ministro delle Finanze, Christian Lindner, su posizioni sempre più lontane rispetto a Social Democratici (SPD) e Verdi. Oltre a proporre un punto di vista diverso dagli alleati circa le modalità per chiudere il buco di bilancio da almeno 2,4 miliardi di euro e cercare di rianimare un’economia in piena crisi, l’FDP ha puntato i piedi probabilmente per innescare in maniera deliberata uno scontro interno alla coalizione e prendere le distanze da un governo che, in picchiata nei sondaggi, ha trascinato lo stesso partito al di sotto del 5% delle preferenze, ovvero la soglia necessaria a ottenere seggi nel parlamento federale.

 

Lindner e Scholz, assieme al ministro verde dell’Economia e vice-cancelliere, Robert Habeck, si sono così incontrati per un vertice decisivo nella serata di mercoledì. Secondo alcune indiscrezioni, i tre leader erano animati dalla volontà di mettere da parte le divisioni e proiettare unità di fronte al paese dopo lo “shock” della rielezione di Trump. Il ritorno dell’ex presidente repubblicano alla Casa Bianca prospetta infatti tempi duri per i piani ucraini e il possibile rilancio della guerra dei dazi contro i colossi dell’export tedeschi, così che il governo di Berlino sembrava dover essere chiamato a compattarsi per far fronte alla realtà che si potrebbe materializzare a breve.

Al contrario, SPD e Verdi da una parte e FDP dall’altra sono arrivati alla rottura e Scholz, al termine della riunione, ha licenziato il ministro Lindner dopo averlo accusato di avere “troppo spesso” ostacolato, per “meschine tattiche politiche”, le iniziative economiche auspicate dalle altre anime della maggioranza. Inevitabilmente, i vertici del FDP hanno subito deciso il ritiro dei loro ministri dall’esecutivo, aprendo la strada alla crisi dopo tre anni di governo.

Scholz ha quindi annunciato un voto di fiducia in parlamento per il 15 gennaio prossimo, rimandandolo cioè il più possibile per provare a stabilizzare la situazione politica, verosimilmente con l’appoggio dell’opposizione cristiano-democratica (CDU) e cristiano-sociale (CSU). Se il governo andasse però sotto, come appare probabile, la Germania andrebbe a elezioni anticipate entro i successivi 60 giorni, quasi certamente a inizio del prossimo mese di marzo. La scadenza naturale della legislatura attuale sarebbe invece a settembre 2025.

Praticamente tutti i partiti di maggioranza si trovano in una situazione senza via d’uscita e quindi sopraffatti dalle contraddizioni di politiche suicide messe in atto negli ultimi tre anni. Come hanno evidenziato le elezioni regionali dei mesi scorsi, sia pure con qualche eccezione, le prospettive elettorali della SPD e dei Verdi sono molto cupe e per ribaltare gli equilibri attuali Scholz intendeva dare un certo impulso alla spesa sociale e adottare misure di stimolo all’economia. Lindner e l’FDP, invece, insistevano sul pareggio di bilancio e proprio venerdì scorso avevano presentato una sorta di piano-ultimatum fatto di tagli alla spesa pubblica e alle tasse, assieme a un rallentamento delle politiche ecologiche, con ogni probabilità al preciso scopo di provocare il rifiuto dei due alleati e giustificare l’uscita dal governo.

Proprio sull’Ucraina sembra poi essersi consumata la spaccatura definitiva. Scholz e Habeck hanno proposto la creazione di un fondo di emergenza al di fuori del bilancio per continuare a sostenere il regime di Zelensky nella guerra ormai persa con la Russia. Lindner avrebbe però rifiutato, dicendosi non disposto a una manipolazione di fatto del prossimo budget federale. La proposta del cancelliere e del suo ministro dell’Economia conferma in sostanza l’intenzione di proseguire sulla strada della rovina per l’Ucraina e l’Europa, anche di fronte a una realtà bellica sul campo ormai immutabile.

Tanto più dopo l’affermazione di Trump e il possibile allentamento dell’appoggio americano a Kiev. Habeck, oltretutto, in una dichiarazione pubblica dopo la rottura con l’FDP, ha affermato precisamente che lo stanziamento di altri fondi per l’Ucraina al di fuori del bilancio in concomitanza con i risultati del voto negli USA sarebbe stata la risposta adatta da dare all’elezione di Trump. Scholz, da parte sua, si è scusato con i tedeschi per la crisi politica appena aperta in un quadro domestico e internazionale drammatico, anche se proprio il suo governo ha responsabilità enormi sia per i problemi economici interni della Germania sia nelle tragedie in Ucraina e Medio Oriente.

Non sorprende quindi che l’indice di gradimento del governo Scholz sia oggi attorno a un misero 14%. L’allineamento totale a Washington nell’offensiva anti-russa è stata in particolare l’elemento che ha innescato il tracollo dell’economia tedesca. L’esplosione del gasdotto Nord Stream 2, con ogni probabilità per opera del governo americano, ha distrutto l’elemento chiave alla base del successo della “locomotiva” Germania, vale a dire la disponibilità di risorse energetiche dalla Russia a basso costo. L’aumento delle spese militari e gli stanziamenti di “aiuti” all’Ucraina hanno poi contribuito alla crescita del deficit, mentre le grandi aziende tedesche hanno iniziato a spostarsi altrove per cercare condizioni migliori.

Il recente annuncio della chiusura di alcuni impianti in Germania di Volkswagen ha rappresentato un trauma, innescando oltretutto mobilitazioni e resistenze da parte dei lavoratori, tanto da costringere i sindacati a indire una serie di scioperi. La competitività di un sistema industriale basato sull’export è così declinata in maniera sensibile, fino a provocare una crisi strutturale virtualmente senza precedenti per la prima economia europea nel dopoguerra. Una situazione che potrebbe inoltre peggiorare con il ritorno di Trump alla Casa Bianca e il possibile riscorso all’imposizione di dazi. Uno studio dell’Istituto Economico tedesco (IW) ha stimato a questo proposito che una nuova guerra commerciale potrebbe costare alla Germania fino a 180 miliardi di euro nei prossimi quattro anni.

Sempre riguardo la futura amministrazione americana, l’eventuale disimpegno dall’avventura ucraina potrebbe lasciare l’Europa da sola a sostenere il peso finanziario e militare del regime di Kiev. E, ovviamente, l’onere maggiore sarebbe a carico della Germania. Invece di prendere atto del fallimento ucraino e adoperarsi per la pace e il ristabilimento delle relazioni con Mosca, il governo tedesco sembra però voler rilanciare le politiche rovinose degli ultimi tre anni. Lo stesso sostengono di volere fare anche i leader cristiano-democratici e cristiano-sociali all’opposizione, anche se la quasi certa sconfitta dell’attuale maggioranza nelle probabili elezioni anticipate, in concomitanza con l’insediamento dell’amministrazione Trump, potrebbe alla fine favorire una risoluzione del conflitto.

Scholz, in ogni caso, sembra al momento puntare a un governo di minoranza con l’appoggio di CDU e CSU, quanto meno per mandare in porto il bilancio federale del prossimo anno. È tuttavia poco probabile che i due partiti conservatori, che assieme al resto dell’opposizione hanno chiesto giovedì un voto di fiducia immediato, rischino di bruciare le chances di vincere le elezioni facendosi coinvolgere in una manovra politica promossa dall’ultra-impopolare cancelliere. Ciò alla luce anche delle pressioni provenienti dalle altre due formazioni di opposizione, l’estrema destra di Alternativa per la Germania (AfD) e il partito di sinistra di recente creazione Alleanza Sahra Wagenknecht (BSW). Entrambe stanno erodendo i consensi dei partiti tradizionali e minacciano seriamente la tenuta del panorama politico “mainstream”, grazie in primo luogo alla ferma opposizione nei confronti delle scelte del governo sulla guerra in Ucraina e sulla rottura dei rapporti con la Russia.