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Se alla viglia delle elezioni negli Stati Uniti cerano forti timori per possibili tensioni o addirittura violenze causate dalla lentezza dello spoglio e dall'equilibrio tra i due principali candidati alla Casa Bianca negli stati in bilico ("swing states"), con i risultati ancora non del tutto definitivi nella prima mattinata di mercoledì in Italia è arrivata invece la sostanziale conferma della seconda vittoria di Donald Trump. L'esito del voto, come quasi sempre è accaduto negli ultimi decenni, non è tanto dovuto alla popolarità del candidato vincente, quanto al disastro praticamente su tutti i fronti provocato dallamministrazione uscente, in cui la candidata Kamala Harris ha svolto un ruolo di primissimo piano, quanto meno dal punto di vista formale.

Sul piano concreto, Trump ha sbaragliato la sua rivale vincendo in tutti i già ricordati "swing states", ad eccezione della Virginia, stato da tempo a tendenza democratica per via dell'afflusso di residenti con impieghi governativi nei popolosi distretti settentrionali. Decisive sono state le affermazioni di Trump in due stati dove nel 2020 Biden aveva prevalso: la Georgia e, soprattutto, la Pennsylvania, di gran lunga lo stato più combattuto dalle campagne dei due candidati negli ultimi mesi.

 

Al momento della stesura di questo articolo, i principali media e istituti americani non hanno ancora stabilito ufficialmente il vincitore di Arizona, Michigan e Nevada, ma l'assegnazione a Trump anche di Wisconsin e North Carolina ha materializzano il raggiungimento della soglia dei 270 voti elettorali necessari ad assicurarsi la presidenza. Con i dati definitivi, Trump dovrebbe salire ben oltre quota 300.

Il flop dei democratici sarà completato poi dalla perdita della maggioranza al Senato, dove erano in palio un terzo dei seggi. Anche in questo caso sono stati due seggi che hanno cambiato colore a risultare cruciali, uno in Ohio e l'altro in West Virginia. Nel primo, il senatore democratico in carica, Sherrod Brown, è stato sconfitto dal candidato repubblicano, Bernie Moreno. Nel secondo, il ritiro del democratico "moderato", da poco diventato "indipendente", Joe Manchin, ha aperto la strada invece al nettissimo successo del repubblicano sostenuto da Trump, Jim Justice. Fondamentale per Trump sarà l'eventuale conferma della maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti. Qui, però, per i risultati definitivi relativi a tutti e 435 i seggi in palio potrebbero essere necessari giorni o addirittura settimane.

Gli orientamenti di voto dei vari gruppi in cui i sondaggi solitamente suddividono gli elettori hanno confermato il totale fallimento della strategia del Partito Democratico, anche di fronte a un candidato e a un partito tutt'altro che popolari e in rapida evoluzione verso un movimento dai connotati apertamente fascisti. Kamala Harris ha in definitiva riproposto le ormai consolidate politiche identitarie, che passano oggi per "progressiste", combinandole con l'aggressiva promozione dell'imperialismo americano sul piano internazionale. Una strategia che conferma come quello democratico sia sempre più il partito della borghesia urbana degli Stati Uniti, nonché di una parte del business e della maggioranza dell'apparato di potere governativo, altrimenti noto come "Deep State".

La deriva oggettivamente reazionaria del Partito Democratico non rappresenta peraltro una novità e aveva già favorito la clamorosa vittoria di Trump su Hillary Clinton nel 2016, grazie alla sorta di alleanza tra la "working-class" degli stati del Midwest, o comunque della maggioranza di quella che ancora vota, e una sezione dei grandi interessi economici e finanziari, ovvero la base elettorale vera e propria del tycoon di New York.

Questa identità consolidata dei democratici ha trovato espressione nell'ultimo anno nel sostegno completo e nella complicità nel genocidio palestinese per mano del regime sionista di Netanyahu. Le decisioni in questo ambito dell'amministrazione Biden hanno influito enormemente sulla perdita di consensi della Harris. L'appoggio garantito a Israele di fronte all'indignazione del mondo ha causato un'emorragia di voti tra quella parte di elettori più giovani o comunque maggiormente spostati a sinistra che ancora nutrivano illusioni sulla natura del Partito Democratico.

La questione palestinese ha dato insomma il colpo di grazia alla Harris, già gravata oltretutto dalle conseguenze economiche rovinose dell'avventura bellica ucraina, sfruttata ad arte da Trump per rilanciarsi come unico candidato della pace e di una ritrovata prosperità economica. A conferma del fardello rappresentato dal genocidio palestinese per i democratici basti citare la riconferma molto netta delle due deputate democratiche musulmane, la palestinese Rashida Tlaib e quella di origine somala Ilhan Omar, rispettivamente in Michigan e Minnesota. Entrambe avevano espresso ferme critiche verso la Casa Bianca per l'appoggio assicurato a Israele e per questo erano state oggetto di attacchi dai vertici del partito. La Tlaib si era addirittura rifiutata di dare il proprio endorsement a Kamala Harris.

Paura del futuro e insoddisfazione per la situazione attuale degli Stati Uniti hanno motivato in larga misura il voto di martedì. Una rilevazione di "Edison Research" ha evidenziato come circa il 70% degli americani abbia espresso una visione pessimistica circa lo stato del loro paese, mentre poco meno della metà si è detto finanziariamente in condizioni peggiori oggi rispetto a quattro anni fa in piena emergenza COVID-19. Trump ha potuto così allargare il suo bacino di consensi e conquistare anche la maggioranza del voto popolare; cosa che non aveva fatto nel 2016 nonostante la maggioranza dei Voti Elettorali e che ai repubblicani era riuscita solo una volta dal 1992.

Verso il candidato repubblicano si sono spostati gli elettori sotto i 30 anni, quelli di colore e gli ispanici. In tutte e tre le categorie, la Harris ha ottenuto la maggioranza, ma i margini si sono sensibilmente ristretti rispetto al 2020. L'attitudine tuttaltro che entusiasta per i candidati in corsa resta comunque il dato principale. Sempre Edison Research ha rilevato che Trump e Harris avevano un gradimento rispettivamente del 45% e del 47% tra gli interpellati, contro il 46% dello stesso Trump e il 52% di Joe Biden alla vigilia del voto nel 2020.

L'immagine del Partito Democratico è crollata inoltre a causa della gestione anti-democratica della successione al presidente uscente. Nelle primarie, i vertici del partito avevano di fatto blindato Biden e bloccato qualsiasi possibile sfidante interno. Il deterioramento delle condizioni mentali del presidente era già ben evidente, ma ogni discussione è stata soffocata per assicurare il controllo della nomination. Quando poi la situazione è crollata in seguito al dibattito televisivo con Trump, il partito ha in sostanza imposto Kamala Harris senza una vera consultazione tra iscritti e sostenitori. Ciò ha alienato una parte degli elettori e la palese inadeguatezza intellettuale e in termini di personalità della vice-presidente ha fatto il resto, assieme, come già ricordato, alle sue posizioni sulla strage in Palestina.

Il grado di repulsione degli elettori per la Harris e i quattro anni della presidenza Biden è ancora più chiaro se si considera che Trump è stato rieletto, oltretutto nettamente, nonostante il tentato colpo di stato del gennaio 2021, i due procedimenti di impeachment aperti e falliti al Congresso e la condanna in un processo penale a Manhattan lo scorso mese di maggio. Una débacle totale quella dei democratici, dovuta a una combinazione dei vari fattori appena esposti e che ha determinato una sostanziale avanzata del candidato repubblicano anche in circoscrizioni e stati solidamente democratici, come ad esempio quello di New York.

Sulle prospettive del secondo mandato di Trump si è discusso a lungo già prima del voto sia in America sia nel resto del pianeta. La questione chiave sarà la sua capacità di imporre alcune politiche che sembrano andare contro l’establishment consolidato, in particolare sul fronte internazionale. La guerra in Ucraina è la questione più calda in questo senso e Trump ha più volte affermato di avere già pronto un piano per far cessare in fretta le ostilità.

Che Trump sia un candidato e un presidente fuori dagli schemi e capace di sfidare il "Deep State" è una tesi tuttavia già smentita durante il suo primo mandato. Che la sua natura imprevedibile sollevi paure e perplessità in patria e all’estero è però fuori discussione. L’inattaccabilità del sistema di potere consolidato negli Stati Uniti rende in ogni caso molto improbabile un cambiamento di rotta che allenti le tensioni sui principali teatri di crisi internazionali ed è perciò prevedibile un'ulteriore escalation dello scontro con rivali come Cina, Iran, ma anche Russia. Una qualche soluzione al conflitto russo-ucraino è peraltro possibile con il cambio della guardia alla Casa Bianca, ma più che altro per il fatto che la causa è persa da tempo per Washington e la NATO, così che la vittoria di Trump potrebbe dare l'occasione per una ritirata senza apparente ammissione di fallimento.

In attesa dei dati definitivi in tutte le consultazioni dell’Election Day e degli sviluppi domestici e di politica estera che potrebbero esserci da qui all’insediamento del nuovo presidente il 20 gennaio prossimo, gli Stati Uniti registrano per il momento una "rinascita" politica ritenuta quasi unanimemente improbabile fino a poco più di un anno fa. Anche per la statistica, d'altronde, la traiettoria di Trump è quasi unica. L’unico precedente di un presidente sconfitto e poi in grado di tornare alla Casa Bianca risale al 1892, quando il democratico Grover Cleveland vinse le elezioni dopo la sconfitta di quatto anni prima.