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Se la memoria è un ingranaggio, il ricordo è un museo. Nella dinamicità dell’una e nella staticità dell’altro si rivelano le enormi differenze che li separano, eppure così frequentemente annullate con la tipica disinvoltura dell’opportunismo. Il “Giorno del Ricordo”, da celebrarsi il 10 febbraio a partire dal 2005, cade a pochissima distanza dal 27 gennaio, “Giornata della Memoria”, istituita nel novembre dello stesso anno. Nella colpevole semplificazione in cui rimangono imprigionate, sono diventate rispettivamente la Giornata delle Foibe e la Giornata della Shoah. Mentre questa ha il faticoso “compito” di resistere all’oblio sullo sterminio di sei milioni di ebrei per mano del nazismo, al 10 febbraio è stato assegnato l’onere della contraffazione storica.

 

L’Armata Rossa fece ingresso ad Aushwitz il 27 gennaio del 1945, aprendo i cancelli a rom disabili slavi e oppositori del regime, oltre agli ebrei, che lì vi erano stati rinchiusi. Il 10 febbraio del 1947 vengono firmati a Parigi i Trattati di Pace tra l’Italia e le potenze alleate uscite vittoriose dal conflitto mondiale, ed è stata scelta nel 2004, sotto il governo a guida Berlusconi, come la data della vergogna; della cessione di territorio italiano alla Jugoslavia. Per estensione, la Giornata delle Foibe.

Il lungo braccio di ferro intrapreso da un manipolo di “irredentisti”, capeggiati dall’allora segretario del Movimento Sociale Italiano Gianfranco Fini, ha dunque dato i suoi frutti. Non ha restituito la verità storica ma ha istituzionalizzato la retorica neofascista su quanto accaduto in quel lembo di terra nell’arco di più di cinquant’anni, e non solo a Trieste dalla fine della guerra, riducendo una realtà composita complessa e complicata all’ “unicum” delle foibe.

La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.” Il testo della Legge 92/04, sembra non lasciare adito a dubbi; il ritmo stentoreo accompagna le parole dall’inizio alla fine. O quasi. Perché è proprio su quelle conclusive che si insinua un’ambiguità di fondo di tutto il corpo della legge, dovuta essenzialmente a una spudorata manipolazione delle fonti storiche. O peggio, alla loro omissione o negazione.

Fino all’aprile del 2004, quando fu approvata la legge, il tema delle foibe era stato argomento esclusivo di una destra revanscista e minoritaria, dal punto di vista politico come da quello culturale. Quella destra per l’appunto irredentista che rivendicava luoghi ed eventi ripudiati non da una sinistra stalinista (o titina, per meglio dire), ma dalla Storia. E dalla Costituzione nata dalla Resistenza. Dopodiché, riprese prepotentemente quota approfittando di uno sciagurato passaggio storico, sul quale torneremo più avanti, conquistando sempre più spazi di visibilità e di accreditamento presso quasi tutti gli strati sociali. Se non ci fossero stati studiosi docenti universitari o cittadini e cittadine che hanno cercato, e tuttora stanno cercando di far valere le ragioni della Storia sulla propaganda più meschina, non avremmo neanche i presupposti per arginare una deriva di tali dimensioni.

Eric Gobetti, Nicoletta Bourbaki, Alessandra Kersevan, oltre ad altri autorevoli rappresentanti del popolo sloveno, hanno fornito documenti e testimonianze inequivocabili sulla intera vicenda, non solo relative al biennio 1943-45, ma anche all’immediato dopoguerra e agli anni successivi. Determinanti quanto quelli antecedenti lo scoppio della guerra e risalenti all’avvento del fascismo fino all’alba del ventesimo secolo. Nel 1993 si è costituita la Commissione mista storico-culturale italo-slovena, Isgrec, con lo scopo di approfondire analizzare e fare chiarezza su un periodo che va dal 1880 al 1956, non per seminare odio. La relazione finale è stata consegnata nel 2000, completamente ignorata quando non ostracizzata.

Una vicenda dunque, che solo la miopia istituzionale e l’appannamento ideologico impedivano di vedere. Malauguratamente, la ribalta della questione del confine orientale non è stata una esclusiva della estrema destra italiana, ma si deve anche all’inedito protagonismo di quella parte della sinistra ritrovatasi “orfana” del mondo bipolare. Il crollo della Unione Sovietica ha innescato, come sappiamo bene, un meccanismo spropositatamente remissivo del più grande partito comunista d’occidente, arrivando, con lo scioglimento, alla abiura totale delle proprie origini e della propria identità.

Al seguito di Luciano Violante, una intera classe dirigenziale ha ritenuto opportuno ritagliarsi un nuovo ruolo secondo il teorema della equiparazione dei totalitarismi. In sintesi, mettendo sullo stesso piano comunismo e nazifascismo. Un concetto astratto a-storico e privo di fondamenta, se non quelle di una presunta strategia rinnovatrice del polo progressista, che si è inserito sventuratamente nello scenario creatosi dall’89 in poi. Caduta del Muro, del blocco dell’Est, delle “ideologie”. Uno choccante effetto domino che ha trascinato con sé tutta la complessità del Secolo Breve, in nome di una emergenza rassicurante e mistificatoria: la memoria condivisa.

La necessità di individuare un terreno comune con il nemico di sempre, e quindi riabilitarlo agli occhi della Storia e soprattutto di un elettorato sempre più confuso e liquido, è legata alla incapacità di rigenerarsi nel rispetto delle radici piuttosto che cedere alla nociva illusione di una socialdemocrazia moderna e deideologizzata. La illusione, in sostanza, di un capitalismo dal volto umano che non ha bisogno di confini geografici e steccati ideologici ma che alimenta nazionalismi e diseguaglianze. Per garantirsi il dominio in ambito economico, politico e culturale.

Non è un caso che a sfilare a Trieste nella falsificata commemorazione delle foibe, non è la tanto osannata (quanto inesistente) società civile, ma sono i lugubri simboli della canaglia nazifascista. Ricompattata sotto le spoglie di un anacronistico irredentismo. Al punto che tacciano di negazionista chiunque osi conservare la preziosità della Memoria, in aperta opposizione al falso feticcio della rimembranza. A loro è stato concesso un indegno risarcimento del 25 Aprile, dopo aver permesso la derisione dell’Olocausto e lo spregio per il 27 Gennaio.

D’altronde, gli squadristi che perseguitavano e reprimevano nel sangue operai italiani sloveni e di tante altre nazionalità che vivevano in quella martoriata striscia di litorale, sono gli stessi che oggi venerano il sovranismo disseminando la barbarie. Nei confronti dei migranti e di qualsiasi altra espressione di diversità. L’intolleranza e la xenofobia hanno fatto breccia anche in quegli strati sociali che consideravamo impermeabili, saldamente muniti di una coscienza di classe che è andata invece via via sfilacciandosi con lo scorrere del tempo e delle consistenti trasformazioni che ha comportato.

D’altro canto, dal punto di vista di chi testardamente continua a ritenere l’antifascismo un principio inalienabile e inderogabile, non sempre siamo stati in grado di coglierne la portata, di avvertire come i fascismi si ripropongano con modalità differenti da quelle “classiche” novecentesche, ma pur sempre criminose, liberticide ed eversive.

Le foibe non sono una invenzione; esistono e sono testimonianza di una tragedia che ha ferito l’Umanità in maniera insanabile. A essere inventate sono le responsabilità e la ricostruzione di una scoria sociale e della Storia che non rinuncia alla propria sconfitta, scolpita nella pietra da una imprescindibile lotta di liberazione popolare. E la tragedia è un interminabile elenco di lutti, stragi, tradimenti rappresaglie ed esecuzioni sommarie, utile esclusivamente ad alimentare il falso mito degli “italiani, brava gente”. Più che il Giorno del ricordo, il 10 febbraio è il buio dell’amnesia.