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Una città millenaria per un giorno è divenuta un gigantesco luogo di donne. Grande è stata infatti la manifestazione di sabato scorso a Roma promossa dal movimento Non Una di Meno per la giornata internazionale contro la violenza di genere. In prima fila hanno sfilato i centri antiviolenza - primo fra tutti Lucha y siesta, sotto sgombero da parte della Giunta Raggi - che rischiano di non avere finanziamenti.  Sono in numero drammaticamente insufficiente, senza i necessari posti nelle case rifugio dove inviare le donne vittime di violenza con i loro figli, senza la possibilità soprattutto di garantire per loro risposte e soluzioni, per una casa  e per un lavoro.
Subito dopo, insieme alle tante Case delle donne di tante città, la Casa Internazionale delle donne, privata da più di un anno della convenzione, con il silenzio assordante  della sindaca di Roma che non risponde a nessuna proposta per risolvere la questione del debito. E ancora donne, tante e di tutte le generazioni, ma anche tanti uomini e femministe cilene e curde, che hanno sfilato con le loro bandiere.
Far aprire la manifestazione ai “luoghi delle donne” è stata una scelta precisa: obiettivo centrale della manifestazione era la questione, tutta politica, della difesa di questi luoghi di libertà e autodeterminazione delle donne. Di fronte all’oscena statistica dell’aumento dei femminicidi, di fronte alle mancanze (che sono in realtà voragini) della rete dei servizi, contro la violenza di genere servono certo politiche, risorse, servizi; ma serve in primo luogo riconoscere il ruolo e il valore simbolico di questi luoghi.
Ruolo e valore che sono anche sociale ed economico. L’obiettivo è infatti far riconoscere una loro funzione di utilità sociale, da contrapporre a chi tratta questi luoghi come fossero morosi inquilini “normali”, a chi si affida al furore ideologico della rimozione della memoria della storia delle donne,  a chi tratta  la materia degli sgomberi con arroganza in nome di una neutralità astratta, di un  tecnicismo amministrativo.
La lotta alla violenza di genere deve ripartire dall’obiettivo di difendere, salvare, moltiplicare questi luoghi e, proprio per questo, ottenere  per loro il comodato gratuito, superando gli attacchi e le obiezioni di chi, in nome della trasparenza e della cosiddetta legalità, chiede il conto alla Casa o sgombera tutti gli edifici occupati, compreso il centro antiviolenza di Lucha y siesta, cercando consenso nella rabbia sociale e in un revisionismo culturale che cancella il nesso complesso ma ineludibile tra principio di legalità e principio di giustizia  sociale.
Ancora una volta attorno a Non Una Di Meno è andata in scena  una grande prova di forza e di maturità politica. E con questo movimento, con la sua richiesta di radicalità, con le sue elaborazioni e pratiche, le forze politiche e sociali sono tenute sempre più a confrontarsi. Sono infatti avvenute profonde trasformazioni e le donne si dimostrano capaci, più della politica, di leggere questa  complessità della modernità. A partire dalla questione politica della violenza di genere.
Violenza di genere sulla quale tanto è stato detto e scritto. La Convenzione di Istanbul, diventata legge italiana nel 2013, è il quadro normativo più completo che è stato prodotto. Lì è stata finalmente inserita la definizione di violenza di genere, intesa non come questione emergenziale, bensì strutturale delle società, come violazione dei diritti umani e “manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi”. Essa ha riconosciuto il nesso inscindibile tra violenza e disuguaglianze di genere, tra violenza e patriarcato. Ma non solo la Convenzione resta inapplicata, anche chi parla di violenza ne parla male, favorendo una narrazione sbagliata, un “senso comune intossicato”.
Siamo tornati indietro. Non solo perché restano indecenti le disuguaglianze di genere ma soprattutto perché, nell’ultimo anno, è successo qualcosa d’impensabile nel passato recente: il disegno di legge Pillon sulla cosiddetta bigenitorialità perfetta, che in realtà ha sdoganato la peggiore misoginia, addirittura introducendo la PAS, orrenda invenzione della cosiddetta “alienazione parentale”, usata nei tribunali dai legali dei mariti abusanti per togliere alle donne i figli che non vogliono stare con i padri. Altra nefandezza? L’attacco continuo e fortissimo alla 194, attraverso l’obiezione di coscienza e con campagne organizzate e finanziate che non sono solo italiane ma internazionali e, di nuovo, gli attacchi ai gay. Nonostante le grandi risposte del movimento femminista le radici di questa restaurazione patriarcale non sono state tagliate.

Anche il femminismo ha vissuto nei decenni una stagione di depotenziamento, è stato quasi “rifunzionalizzato". Sono stati rubati i nostri stessi linguaggi, valori. La richiesta di “femminilizzare la società”, per esempio, invece di richiedere un cambiamento dell’assetto economico e sociale, è diventata accettazione della flessibilità trasformata in precarietà, del part-time obbligatorio per le donne,  della precarizzazione del mercato del lavoro per tutti;  la “cultura del dono” si è trasformata in sostituzione del welfare pubblico; “il personale è politico” è divenuto lo strumento e il linguaggio intimista della politica; la centralità del corpo e delle relazioni sessuali da vissuti politici sono stati “naturalizzati”, neutralizzati.
Soprattutto è successo che le destre hanno visto crescere anche tra le donne il consenso popolare. Le donne o si sono astenute, o hanno votato Salvini, anche quando si è dichiarato esplicitamente come razzista, fascista  e sessista. Le destre sono state capaci di rappresentare bisogni sociali e contemporaneamente identitari, che hanno parlato anche alle donne. Anche sulla violenza, le donne che hanno votato Salvini si sono sentite rappresentate da una visione securitaria e da una difesa patriarcale. “Le nostre donne” è lo slogan che si rivolgeva sia agli uomini di destra che alle donne. Sono prevalse le percezioni di sicurezze derivanti da appartenenze ristrette, comunità di simili uniti “contro l’altro” (immigrato, tossico, gay), ma anche “contro l’altra” (intendendo per “altra” la femminista, quella che “se l’è cercata”, quella che uccide i bambini/embrioni, che è  bugiarda e manipolatrice).
Questo tsunami non è passato. Esiste e persiste. Riguarda in primis la sinistra ma anche il femminismo. La sinistra deve fare i conti, dopo la caduta del muro (di cui si ricordano con troppa inutile retorica i 30 anni e si omette come ora in Europa i muri siano 16) con le illusioni e la contiguità con le politiche liberiste, proprio oggi che  - come dice uno studioso francese - “è il momento fascista del liberismo”. Deve saper rinominare valori e ideali, senza aver paura - come sollecita l’economista femminista Mazzuccato - di parlare della crisi del capitalismo. Per ritrovare la consonanza sentimentale con la sua gente.
Il femminismo deve ritrovare la centralità della sua carica trasformatrice, della sua radicalità, del suo “sguardo sul mondo”. Classe, razza e sesso sono i nessi con cui oggi le destre costruiscono strategia e pensiero dominante. Non è un caso che nella manifestazione contro la violenza di genere lo slogan molto gridato è stato “Contro il liberismo, contro il patriarcato”. Con questi stessi nessi, il movimento Non Una Di Meno ha espresso uno straordinario protagonismo, nel nostro paese come a livello mondiale.

Non per caso davanti a tutti, in prima fila, hanno sfilato le donne, le operatrici, le associazioni che hanno in questi anni costruito e fatto vivere i luoghi delle donne. Senza questi spazi di libertà, di pensiero e di pratiche tante  donne non avrebbero potuto realizzare la loro autodeterminazione per uscire dalla violenza; senza questi spazi di libertà, di pensiero e di pratiche il femminismo sarebbe stato sconfitto. Le donne in piazza hanno detto che serve coraggio e - come dicono le femministe cilene - “il coraggio è quel muscolo che si esercita con l’uso”. Allora, usiamolo.