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di Tania Careddu

Dal momento che nei bilanci pubblici entrate e uscite non possono considerarsi totalmente neutrali in termini di genere, dagli anni ottanta è stato pensato il bilancio di genere. Senza avere la finalità di giungere alla realizzazione di bilanci separati (per sesso) ma fondandosi sull’idea di rendere più equa (e trasparente) la ripartizione delle spese, il bilancio di genere promuove, o almeno dovrebbe, la realizzazione del principio di parità e uguaglianza.

Prendendo spunto da esperienze internazionali ed europee, nel 2001, in Emilia Romagna è stato messo a punto il primo; nel 2003, le province di Modena, Siena e Genova hanno siglato un protocollo d’intesa per la sua promozione e lo scambio di buone pratiche in materia di pari opportunità; a fine 2006, anche le province di Ferrara, Alessandria, Ancona, Firenze, La Spezia, Milano, Parma, Pesaro-Urbino e Torino lo hanno adottato.

Strumento di messa in atto del meccanismo di “ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle Pubbliche Amministrazioni”, il bilancio di genere richiama, in forma esplicita, il perseguimento delle pari opportunità, integrando la prospettiva di genere in tutti i passi delle procedure di bilancio e mirando a modificare entrate e uscite per eliminare le disparità presenti. E’ volto, cioè, alla valutazione del diverso impatto della politica di bilancio sui due generi, in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito.

La classificazione delle spese e delle entrate in un’ottica di genere costituisce un’impresa ardua ma permette, a conti fatti, una valutazione qualitativa e quantitativa dei servizi e della loro capacità di rispondere ai bisogni dell’intera popolazione.

Ma, in virtù della sua complessità, nella prassi italiana, emerge, purtroppo, un quadro frammentario e discontinuo in cui il bilancio di genere consiste in poco più di un’analisi di contesto. Forme sporadiche di coordinamento tra i diversi enti impegnati nelle analisi di genere e singoli esercizi non sono confluiti in un progetto più ampio che coinvolgesse l’amministrazione tutta.

Affinché non si continui a tradurre il bilancio di genere in un mero esercizio contabile, la quantificazione dell’impatto degli interventi pubblici sul divario di genere assume maggiore efficacia se effettuata nel contesto di una valutazione complessiva e sistematica delle politiche pubbliche.

Anche perché, attualmente, l’analisi di genere viene esercitata, più che altro, sui dati di consuntivo dei bilanci, con finalità, dunque, prettamente informativa, piuttosto che nella fase di preparazione del bilancio, ossia in sede di decisione dell’allocazione delle risorse.

Trascurandone la sua essenza, se non si considera che il bilancio di genere rappresenta l’ambito nel quale si delinea il modello di sviluppo socio-economico, si stabiliscono i criteri di ridistribuzione del reddito e si indicano le priorità politiche. Elementi che, sottovalutati nelle decisioni di bilancio, tendono a perpetuare (se non ad approfondire) le differenze di genere che permeano la società.

Ma fin quando non si accantona l’immagine che il benessere vada valutato sulla quantità goduta di un bene o sull’utilità derivante dal suo impiego e non sui funzionamenti, il bilancio di genere rimane un lusso che non ci si può ancora permettere.