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di Tania Careddu

Vivono in un limbo di identità e di diritti pur non avendolo scelto: sono apolidi. Senza una cittadinanza, senza documenti, invisibili. Non ha la possibilità di studiare, di sposarsi, di lavorare. Perché hanno perso (o non hanno mai avuto) la cittadinanza del loro Paese di origine. Una condizione che in Italia, dove il riconoscimento del loro status è molto difficoltoso a causa di procedure inaccessibili, può diventare una condanna.

Riconoscere ufficialmente l’apolidia è una prima possibilità di accedere ai diritti fondamentali. Sebbene sia una condizione dolorosa, permette però di ottenere un’identità. Perché “in assenza di qualsiasi senso di appartenenza (…), senza alcun collegamento con uno Stato”, Nyima, artista tibetano, il primo apolide in Italia, si è “sentito perso e abbandonato”, ha raccontato in occasione della presentazione della campagna #nonesisto, lanciata dal Consiglio Italiano per i Rifugiati, al fine di sensibilizzare sugli ostacoli che incontrano le persone apolidi nella vita quotidiana, cioè l’impossibilità pratica di accedere a un riconoscimento legale della propria condizione.

Un’esistenza negata che rischia di tramandarsi di generazione in generazione, facendone pagare le conseguenze ai bambini. E’ il caso dei figli nati da famiglie sfollate dell’ex Jugoslavia che hanno ereditato lo status di apolidia dai genitori o si sono ritrovati con una nazionalità incerta. Di più: questa condizione di irregolarità sostanziale impedisce loro di acquisire la cittadinanza italiana. Ed è una situazione in cui potrebbero ritrovarsi anche i rifugiati che stanno sbarcando sulle coste dello Stivale. Vedi, per esempio, i figli nati da madri siriane rimaste sole, impossibilitate a trasmettere la cittadinanza ai loro figli a causa della legge siriana che lo permette solamente ai padri.

Per la direttrice del CIR, Fiorella Rathaus, “l’apolidia è in sé una condizione estremamente complessa e dolorosa, perché presuppone l’inesistenza, la negazione del legame più importante che unisce un individuo al suo Stato: la cittadinanza. Ma questa condizione può divenire addirittura drammatica se non riconosciamo a queste persone identità e diritti. Tutti gli esseri umani hanno diritto ad avere una nazionalità, e coloro che sono sprovvisti hanno comunque diritto a una protezione adeguata.

Per questo motivo - ha proseguito la direttrice del CIR ha dichiarato - con questa campagna vogliamo creare una sensibilità sul tema che possa favorire in Italia l’introduzione della legge sull’apolidia, uno strumento normativo in grado di garantire una procedura chiara, facilmente accessibile e fruibile per tutti coloro che hanno diritto a chiedere il riconoscimento di apolidia e che include una regolamentazione dei diritti della persona, durante l’iter e dopo l’eventuale riconoscimento”.

Si stima che in Italia siano quindicimila e sono solo seicentosei coloro che hanno uno status di apolidia riconosciuto; provengono dalla ex Jugoslavia, dalla Palestina, dal Tibet, dall’Eritrea, dall’Etiopia e dai Paesi ex Urss. L’UNHCR valuta che ogni dieci minuti, nel mondo, nasca un bambino apolide.

Per quelli che nascono nel Belpaese, predisponendo l’acquisizione della nazionalità (italiana) senza introdurre come requisito il riconoscimento formale dell’apolidia dei genitori, si assicura loro il godimento dei diritti fondamentali e di una vita dignitosa. Speriamo che il Disegno di legge sul riconoscimento dello status di apolide, presentato in Parlamento a novembre scorso, sia sulla buona strada.