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di Rosa Ana De Santis

Produrre sostanze nocive che uccidono e omettere controlli per procurarsi ulteriori margini di profitto, non rimane impunito. Per quanto questo paese sia ancora in preda ai deliri d’onnipotenza del turbo liberismo, ci sono ancora giudici capaci di obbligare le aziende alla responsabilità sociale che le compete.

E c’è poco da ricorrere dinanzi all’evidenza. La sentenza di appello, arrivata nel pomeriggio, ha infatti aumentato di due anni la condanna per il manager elvetico Stephan Schmidheiny. Si passa da 16 a 18 anni di reclusione per disastro doloso ai danni dei lavoratori contagiati dal veleno dell’amianto. Un risarcimento super di oltre 30 milioni per il Comune di Casale Monferrato e 20 alla Regione.

La sentenza non riguarda altri siti coinvolti dallo stesso tipo di disastro ecologico e di salute, come quello di Bagnoli (Napoli) e non tocca gli anni per i quali fu responsabile il barone belga Jean-Louis de Cartier, ormai deceduto. Ciò nonostante l’aumento della pena e la sonora condanna arrivano come un sollievo e una speranza per l’associazione dei parenti delle vittime che da anni, instancabile, porta avanti questa battaglia.

Una vittoria che fa scuola - o giurisprudenza, come si dice - e che assolve un po’ la funzione non solo simbolica di una possibilità concreta di vittoria anche per casi analoghi come il più recente sull’Ilva di Taranto.

L’azione legale è iniziata quarant’anni fa e l’epilogo indica senza tentennamenti il modello culturale da cui non si può prescindere né fare eccezione in nome della produttività. Un monito visti i tempi della crisi e della disperazione in cui tutto sembra diventare legittimo e come anestetizzato dalla normalità. Quella per cui un operaio di Taranto deve domandarsi se portare lo stipendio a casa o ammalarsi di tumore.

Per monitorare da questo momento in poi la gestione dei risarcimenti il governo potrebbe assolvere un ruolo attivo, come mai finora avuto nelle fasi processuali. Questo l’appello invocato da Sinistra, Ecologia e Libertà  e da altre forze politiche che parlano alla Corte d’Appello di Torino per guardare a Taranto.

L’amianto è ancora una vera emergenza in Italia.. Abbiamo nel nostro Paese ancora 2,5 miliardi di metri quadri di coperture di Eternit pari a 32 milioni di tonnellate di cemento-amianto, lasciate a morire e a far morire cittadini ignari. Mancano indagini epidemiologiche a riguardo e la volontà di farle seriamente. A dirlo è Angel Bonelli, presidente dei Verdi.

La sentenza di Torino è certamente illuminante sul tema della salute e delle malattie legate all’amianto (dall’ asbestosi al mesotelioma pleurico fino a varie forme tumorali maligne) che finalmente in questa sede legale trovano riconoscimento nel loro rapporto di causalità e non supposizioni e discettazioni a vuoto. Ma è anche una sentenza preziosa per il tema del lavoro e del suo intrinseco valore, cosi orribilmente svilito nel tempo della disperazione sociale e della crisi.

La dignità di lavorare, di svolgere una funzione sociale e onorare un servizio e di ricevere un compenso per esso, non una moneta di scambio per la propria vita, è un principio tanto elementare quanto disatteso ormai nel mercato del lavoro. Se si arriva all’orrore di morire per lavorare è la Costituzione di questo paese che viene tradita. E’ il senso profondo di ogni uomo. E’ ben oltre quello che teorizzava Marx con la sua teoria del plus valore. Siamo alla contraddizione del lavoro che uccide l’uomo per il denaro.

Un conflitto che racconta di un’antiumanità insidiosa e pericolosamente normalizzata, il cui contrappasso quasi spirituale, aldilà della legge di un tribunale e dei risarcimenti pecuniari, è fatta di una pena che pesa 18 anni di vita.