Stampa

di Silvia Mari

A Bologna vince, con un epilogo che assomiglia un po’ a quello di Pirro almeno nei numeri di partecipazione, la scuola pubblica: questo l’esito del quesito referendario dello scorso 26 maggio. La proposta di rimettere la parola ai cittadini sulla destinazione dei fondi pubblici per le scuole private era stata fortemente voluta dal “Comitato articolo 33”, sostenuto da Cinque Stelle e Sel in opposizione alla santa alleanza tra Pd e cattolici.

La partecipazione al voto è stata scarsa, con sonora sconfitta quindi dei partiti che non sono riusciti a rendere sentito il voto, trattandosi in effetti solo di un’espressione consultiva. Unico giudice poco severo sulla scarsa affluenza (28,71%) è Romano Prodi, che di questo sistema di condivisione pubblico-privato ne è stato propositore ai tempi dell’Ulivo.

Il caso nasceva dai soldi che ogni anno partono dalle casse comunali per le scuole materne private, ma certamente il tema politico sotteso al referendum voleva essere più esteso e su questo terreno di massimi sistemi la sciagurata presa di posizione del PD è un’utile lente per valutare lo stato di salute di tutto il partito, anche sul piano nazionale aldilà di chi ora frettolosamente plaude alla sua rinascita solo perché al primo turno nella Capitale il fiacco Marino supera il disastro Alemanno.

Il sindaco di Bologna, Virginio Merola, ha messo in campo tutte le forze del partito per convincere i cittadini a votare l’opzione B, che voleva pervicacemente l’integrazione di pubblico-privato a carico delle tasche dei contribuenti, stringendo la mano a Curia e Pdl.

Seppure nel flop dell’affluenza ha vinto invece l’opzione A che, Costituzione alla mano, crede che i soldi pubblici debbano andare solo ed esclusivamente alle scuole di Stato e che le altre, come vuole il più classico sistema liberale, non i soviet, debbano vivere di rette e di fondi privati.

Se il Partito Democratico riesce ad imitare così bene i finti liberali del Pdl che vogliono il privato sulle spalle del pubblico è evidente che non soltanto è cessata la fine di una tradizione di sinistra che nell’istruzione e nella sanità non può ammettere sconti al diritto per censo, ma anche ogni possibilità di diventare, magari fosse, liberali sul serio. Né l’uno, né l’altro quindi in nome di una rete di interessi con le lobby cattoliche che disonora un po’ tutti. Vale la pena ricordare che 25 delle 27 scuole private materne convenzionate sono quelle di sacerdoti e suore.

La vera vittoria di Bologna, alla resa dei conti e chiusi i seggi del voto, è fatta di due momenti. Il primo è quello di aver scelto di interrogare direttamente i cittadini, restituendo alla loro voce l’adesione e il parere su un diritto costituzionale fondamentale quale quello dell’istruzione. Il secondo è quello che sancisce ufficialmente la fine di un partito che voleva essere di sinistra, ma che è slittato terribilmente al centro, non da oggi e non su questioni di contorno.

I cittadini, gli elettori storici lasciati per strada dall’investitura ufficiale della “sinistra compatibile” continuano, come l’esito del voto conferma al netto della disaffezione di chi non ha votato perché non toccato direttamente dal problema, ad esprimere la sopravvivenza di una cultura che su alcuni diritti fondamentali non accetta desistenze né inquinamenti di pensiero.

Il referendum di Bologna non è utile solo a ribadire che sui diritti fondamentali non ci possono essere contiguità di convenienza tra sistemi di valore diversissimi, né accomodamenti. L’istruzione di un popolo è compito dello Stato e, seppure sono possibili interventi dei privati, essi non possono mai essere finanziati con fondi della collettività che vanno invece indirizzati al sostegno alla scuola pubblica. E un’assurdità che i soldi dei cittadini finanzino scuole che costano, che non sono alla portata di tutti e che hanno obiettivi culturali non pienamente e in toto sovrapponibili a quelli dello Stato. Esattamente come accade tra ospedali pubblici e cattolici o privati in generale.

Forse il voto di Bologna ci dice anche che è un bene che i figli, specialmente negli anni della materna e delle elementari, frequentino le scuole pubbliche per assicurarsi una formazione “neutra” e non orientata e che solo dopo per loro le famiglie scelgano percorsi in istituti privati.

La sinistra democratica italiana, in una rimozione che non può essere perdonata, avallando questo meccanismo per cui il pubblico finanzia il privato ha buttato all’aria quel principio di sussidiarietà che pretende doverosamente il contrario, ovvero che gli abbienti paghino per quei servizi fondamentali di cui tutti hanno diritto, senza distinzione di censo. Questo fa la differenza tra uno Stato giusto e democratico e una aggregazione di interessi particolari. Lo dice Rousseau alla lezione numero uno sulla democrazia. E lo dice il buon senso che la scuola privata destinata ai più abbienti non può essere sul conto di tutti.