Polemiche e scontri, minacce e timori, auspici e approvazioni. Sono un piccolo
condensato delle reazioni alla proposta del ministro della Salute, Livia Turco,
di reinstaurare l'esclusività della prestazione per i medici che svolgono
attività di capi dipartimento e dirigenti ospedalieri.
La scelta tra esercizio della direzione dei reparti in ambito pubblico o privato,
era stata introdotta dal precedente governo Prodi, con Rosy Bindi ministro della
Sanità (così si chiamava allora il dicastero). Successivamente,
il governo Berlusconi, che aveva collocato un barone prima e un politicante
poi alla guida del dicastero tra i più delicati, aveva reintrodotto la
giungla amministrativa. Il risultato era che il paziente pagava due volte, servizio
sanitario pubblico e prestazione privata, e i medici incassavano due volte,
dallo Stato e dal paziente. Sulle prestazioni e sulle malattie dei due soggetti,
ce n'era un terzo che guadagnava e basta: la struttura privata che ospitava
medico e paziente. Il governo Prodi, con la riforma Bindi, aveva introdotto, conscio dell'assoluta
inadeguatezza dei livelli economici destinati ai medici, agli stessi che sceglievano
l'esclusività del loro rapporto di lavoro, la possibilità di svolgere
attività di intramoenia presso gli stessi ospedali dove i medici
prestavano servizio, la possibilità cioè, di svolgere attività
privata con ambienti e macchinari di proprietà pubblica. I vantaggi erano
per tutti: per i medici che sarebbero stati sgravati dall'acquisto di macchinari
costosissimi e spese di gestione dei locali e che avrebbero visto un incremento
delle loro entrate; per i pazienti, che avrebbero visto l'erogazione della prestazione
con il medico di loro fiducia e non quello di turno al servizio; per la struttura
ospedaliera che avrebbe potuto incrementare gli incassi, che avrebbero permesso
con maggiori entrate maggiori servizi ed avrebbero consentito il pieno utilizzo
dei macchinari con il conseguente, parziale, ammortamento dei costi. La condizione
era una sola: che l'intramoenia non fosse superiore ai volumi di attività
normali, che fosse cioè una prestazione che segue e non sostituisce quella
nel reparto ospedaliero.
Anche allora, quando la ministra Bindi riuscì a far passare la sua riforma,
le reazioni da parte di medici (in prima fila i primari) furono le stesse. L'argomento
solito, quello che veniva e viene brandito come una clava sulle ansie sociali
che le prestazioni sanitarie inevitabilmente generano, era che i medici più
bravi o comunque i più noti (caratteristiche non sempre coincidenti)
avrebbero abbandonato il sistema sanitario pubblico per orientarsi verso il
privato, con conseguente depauperamento del servizio sanitario nazionale e delle
risorse umane che esso prevede.
Così non fu. Dopo pochi mesi dalla data della scelta obbligata per il
medico, si scoprì che la quasi totalità degli stessi aveva scelto
l'esclusività del servizio pubblico. Perché è il reparto
ospedaliero il luogo dove i medici possono offrire le prestazioni più
complete; perché è il luogo ove la sperimentazione dei protocolli
può avvenire e perché è proprio il reparto il luogo dove
la casistica, figlia evidente della legge dei grandi numeri, produce risultati
che possono essere significativi per la salute dei pazienti e la formazione
professionale e la carriera e conseguente fama dei medici stessi.
Il provvedimento aveva una sua indiscutibile giustificazione giuridica e deontologica:
atteso infatti che le strutture private sono in concorrenza, come è possibile
che un dirigente lavori e venga pagato da due strutture concorrenti tra loro?
Questo non è possibile in nessun luogo al mondo e per nessuna prestazione
professionale. Illuminanti le parole del professor Luigi Frati, Preside della
facoltà di medicina della sapienza, protettore e coordinatore nazionale
dei presidi di medicina: "Il dirigente della Fiat che finito il suo lavoro
va a vendere macchine alla Toyota verrebbe subito licenziato". Succede
poi che, come aggiunge il prof. Frati, "nel nostro sistema sanitario nazionale
i primari ed i capi dipartimento hanno anche funzioni di organizzazione e coordinamento
e programmazione sanitaria, tutti compiti incompatibili con il lavoro in una
struttura privata". E del resto, la scelta di lavorare per società
in concorrenza tra loro si verifica (e non troppo frequentemente) per alcuni
mestieri, ma mai per prestazioni professionali.
Si può lavorare dunque al mattino per qualcuno e al pomeriggio per il
suo concorrente? E' lecito sospettare che le patologie ad alta remunerazione
siano dirottate sul privato e quelle ad alto costo per la struttura vengano
dirottate verso il pubblico?
Nonostante le ristrettezze di bilancio del paese, con il primo governo Prodi furono comunque previste e stanziate risorse ad hoc per dotare gli ospedali delle strutture idonee all'intramoenia; ma, ad oggi, sono ancora molte le regioni che quelle risorse non le hanno utilizzate. E' certo che lo sforzo economico che le Asl dovranno effettuare avrà bisogno anche di un sostegno specifico nella programmazione della spesa sanitaria, anche con il contributo statale nelle regioni meno capaci economicamente. Senza questo sforzo una parte della modifica positiva che la ministro Turco vuole apportare rischierebbe di rimanere incompleta. Il fatto su cui però è prioritario concentrarsi è che già nella passata esperienza a trarre giovamento dall'incompatibilità delle prestazioni tra pubblico e privato dei dirigenti furono i nosocomi del sud e la popolazione su tutto il territorio nazionale. Il governo Prodi non durò il tempo necessario alla messa a regime definitiva, ma i risultati immediatamente riscontrabili furono eccellenti. Non apparvero invece tracce di primari indigenti.