di Rosa Ana De Santis
Sulla famiglia non mancano mai le lezioni non richieste. Dalle gerarchie ecclesiali ai partiti che ne portano il verbo nelle istituzioni, é spesso un fiorire ipocrita e retorico sulla famiglia. Una volta tanto, quindi, é bene leggere dati scientifici piuttosto che litanìe interessate. I numeri dell’indagine condotta dal Censis, in occasione dei 150 anni dall’Unità d’Italia, ritraggono un paese in nostalgia che torna, o non si separa, dai modelli di una volta. Sarà la spinta dei forti cambiamenti, la depressione economica e una nuova geografia sociale e culturale, ma gli italiani sembrano rimasti quelli di sempre.
Vincono i valori classici: la famiglia prima di tutto, poi la tradizione religiosa in cui si riconosce la maggioranza della popolazione, la moralità e l’onestà. Più ambigua la considerazione dei rapporti con gli altri. Se più del 50% definisce “belli” i rapporti interpersonali con persone sconosciute, la lealtà e la fiducia sono sentimenti circoscritti alla cerchia delle conoscenze più prossime.
La collettività rimane un’identità poco chiara e densa di sospetto e, questo forse il portato storico più desolante, la maggioranza degli italiani non crede al senso di responsabilità degli stessi italiani verso il bene comune. E’ tutto questo a produrre una scarsa coesione sociale e a rendere la comunità nazionale un’idea molto debole nella percezione culturale e identitaria della popolazione.
Emerge con numeri significativi il bisogno di averi modelli di riferimento. Se nel 1988 il 63,2% degli italiani intervistati dichiarava di non avere “maestri di vita”, oggi questa percentuale scende al 40% circa.
La crisi della soggettività e forse anche della stessa famiglia tradizionale, sopraffatta dalla crisi dei matrimonio e delle famiglie allargate, contribuisce ad alimentare la necessità di trovare proprio in casa le muse della propria vita. Padre e madre rappresentano per le nuovissime generazioni un paradigma assoluto, vincente rispetto alle relazioni interpersonali pubbliche. Il 22% riconosce nel padre il proprio maestro e il 13% la madre.
Se i valori nelle loro forme archetipe vanno in crisi, se il ruolo genitoriale cambia forme e modalità, si può stare comunque tranquilli, stando a quando dimostrano i numeri, che i modelli non sono scomparsi e anzi piuttosto conoscono un inaspettato rilancio nella crescita dei figli.
Aumenta anche la quota di quanti si professano credenti: se negli anni Ottanta era del 45,1% oggi arriva al 65,1% e se questo non sempre coincide con la veste dogmatica della pratica religiosa corrisponde invece, almeno formalmente, ad un atteggiamento conservatore e restrittivo rispetto alle nuove questioni dell’etica. Nel dubbio, per semplificare, si preferisce difendere lo status quo e non stravolgere convincimenti o forse solo costumi ormai consolidati nella vita sia pubblica che privata.
Il bilancio dell’indagine ritrae un paese con la faccia all’indietro e a guadar bene anche il rinverdire delle tradizioni svela più che un autentico recupero dei valori tradizionali, la paura di guardare avanti. Soccorre la sociologia a spiegare questa incoerenza tra i modelli riferiti e la metamorfosi di fatto che caratterizza i costumi sociali diffusi, soprattutto tra i figli.
Tanto più i valori del passato sembrano tornare con forza, tanto più questi sono scollati dallo stato reale delle cose. Bastano le chiese vuote, su tutto, a mostrarlo con maggiore evidenza. Agganciarsi al bastone del valore di una volta non funzione più realmente come canale educativo e formativo. Funziona piuttosto come un muro oltre il quale si ha paura di andare.