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di Rosa Ana De Santis

Dallo scranno di Montecitorio una Binetti agitata e spazientita interpreta magistralmente l’impreparazione e la tensione tirannica di una politica nana, incapace di lanciarsi con vigore e rispetto nelle questioni bioetiche che attraversano la medicina e il diritto del nostro paese. Il suicidio di Monicelli poteva sembrare un gesto di disperazione e solitudine.soltanto agli occhi di un’integralista prigioniera del catechismo come lei e disinteressata al valore altissimo della spiritualità,

Monicelli nel suo ultimo volo le risponde. Con la sua produzione artistica, con le sue risposte ironiche e pirandelliane ai colleghi, con il temperamento di un uomo antidogmatico che smarcava regole e attese, retoriche e assiomi. Con l’inganno buono dell’artista che entra in scena, bacia sua moglie, fa la sua ultima visita e poi decide come finire la sua vita. Senza avvisi, né testamenti. In perfetta coerenza con una vita che di solitudine si è nutrita ogni giorno.

Non quella che pensa la Binetti, l’Udc, i sacerdoti e tanta sottocultura. Una solitudine raffinata e scelta, non subìta dalla scarsa carità degli altri. La vita solitaria che il genio di un artista ricerca come la sua musa e la sua difesa dalla normalità. Quella di una morte che arriva a passi lenti, sul letto dove magari giaci da mesi sotto farmaci e morfina, senza sentirti e senza sentire. Non poteva essere questa anestesia prolungata e questa perdita di autonomia la morte di un genio artistico libero e provocatore.

Bene che sia stato il Presidente della Repubblica a definire la morte di Monicelli come “un estremo scatto di volontà da rispettare”. Non un abbandono, non un disorientamento, non l’arrendevolezza di una vittima come i cattolici tentano di dimostrare, rendendo ridicolo ogni argomento soprattutto se il protagonista, come in questo caso, è un’autentica icona della libertà di pensiero.

Ma è questo il punto che non riesce ad entrare nel dibattito parlamentare italiano e che ad oggi, con il pietoso ddl sul fine vita, ci obbliga a rimanere inchiodati alle macchine, anche se ridotti a vegetali senza pensiero né sentimento, contro la nostra volontà. L’errore è mettere al centro della riflessione morale se una vita in certe condizioni sia degna di essere vissuta. Nessuno ha il diritto di rispondere a questa domanda per tutti. Perché nessuno possiede una scala di criteri assoluti per codificare il valore di uno stato esistenziale.

La domanda su cui l’arroganza della Binetti dovrebbe tacere è se quella vita sia degna di essere vissuta per quella persona e solo per quella. La cronaca ci ha dimostrato che non appartiene solo alla medicina la risposta ad alcune domande, come - ad esempio - la condizione di Eluana. Non appartiene a un’obbligata lettura paternalistica delle relazioni l’interpretazione della morte di Monicelli.

E’ il rifiuto della libertà di scelta il vero motore dell’esplosione oratoria della Binetti. Perché essa semplicemente smaschera la vera natura del dibattito politico sull’eutanasia, come sull’accanimento terapeutico, come sull’aborto. Che non ha nulla di liberale e democratico e che è tutto plasmato su un’idea della vita e del dolore che è cattolica. Ma del resto la Binetti siede alla Camera con questa missione. Ed è pietosamente evidente.

L’uscita del suo prossimo libro “Il consenso informato” veste di fittizia laicità argomenti che hanno una natura religiosa.  Un’astuzia ingenua, ma insopportabile per chiunque crede che questo non è un paese confessionale e che dovrebbe ispirarsi ad altri modelli europei per capire cosa significhi non esserlo più. La relazione medico-paziente, in questo volumetto di persuasione per l’anima, viene interpretata secondo contenuti e procedure operative che tendono a condizionare emotivamente la persona ammalata, più che ad informarla dando al medico un ruolo di merito e di educazione morale che non gli appartiene.

Certo, non tutti sono Monicelli. Forse l’eutanasia aprirà il fianco ad abusi e violenze. Ma a questo deve riparare il diritto, non la Chiesa. E questo terribile rischio non rende meno terribile che lo Stato decida per noi, che un suicidio si trasformi in una condanna morale più o meno indistinta, nel pretesto per un divieto totalitario.

Chiunque ha visto la più semplice delle persone morire nella malattia sa che una morte dignitosa e con meno sofferenza è più dolce di una tortura prolungata. Se la Binetti questo non può digerirlo perché porta al collo l’Opus Dei e sotto le gonne il cilicio, siamo quasi certi che il dio misericordioso, quello delle scritture, lo capirà di più.