Stampa

di Rosa Ana De Santis

La notizia è arrivata dalla Gran Bretagna. Ray Gosling è stato accusato di omicidio per la morte del compagno, malato terminale di HIV. Rischia fino a 14 anni di carcere per il reato di suicidio assistito. Potrebbe non valere nulla l’accordo che il famoso conduttore della BBC dice di aver onorato rispettando la promessa fatta per dare la buona morte. I titoli parlano di eutanasia e la cronaca dell’accaduto ci racconta di una morte avvenuta per asfissia. Gosling avrebbe ucciso il compagno malato con un cuscino in faccia, sul letto di ospedale. La morte sarebbe quindi sopraggiunta dopo una vera agonia. Qualcosa però stona, non convince.

Stando ai fatti, per mettere fine alle inutili e terribili sofferenze dell’uomo ammalato, rimasto ancora senza un nome e un cognome, sarebbe stata scelta una morte che assomiglia di più a una tortura breve. Nessun accompagnamento alla morte, ma un’azione fredda e violenta, degna di un killer. Quello che, non a caso, non è emerso dalle prime pagine e dai titoli dei giornali, è che questo caso è profondamente dissonante dalle storie che raccontano di eutanasia. La buona morte, sempre scelta e richiesta dal paziente, rappresenta l’ultima estrema medicina rispetto ad una condizione organica e psicologica di sofferenza cronica e irreversibile. La buona morte non uccide, ma fa morire e la differenza tra queste due condizioni della fine della vita è estrema e inconciliabile.

Non sappiamo se davvero la richiesta di porre fine alle sue sofferenze ci sia stata e non sappiamo nemmeno se il modo sia stato concordato o scelto da Gosling. Certo che, accostare la scena di un soffocamento di un uomo inerme e debole al concetto di eutanasia equivale a suggerirne un significato sbagliato e soprattutto a raffigurare la persona che decide di rispettare un‘alleanza di solidarietà profonda con i contorni di un assassino.

L’uso strumentale delle parole diventa, soprattutto in un dibattito aperto e fresco come quello italiano con l’operato dei giudici nel mirino, come il caso Englaro ha dimostrato, un’efficace strumento per plagiare e confondere. Se le parole hanno un valore l‘eutanasia affonda le sue radici nel prefisso greco eu, che rimanda al concetto di bene. Eppure l’interpretazione sdoganata come ufficiale da un dibattito fondato su errori di metodo e su pregiudizi ha prodotto lo snaturamento di alcuni termini che nell’uso corrente sono diventati altro.

Perché Gosling avrebbe deciso di porre termine alle sofferenze estreme del proprio compagno con una morte altrettanto atroce? Un moto di esasperazione spacciato per rispetto di un patto di amore come argomento da usare in tribunale? Se davvero ci fosse stata una promessa di questo tipo non sarebbe stato tutto organizzato da tempo e nel dettaglio? Qualcuno potrebbe trovare ipocrita la differenza tra l’uso di un cuscino per soffocare e la somministrazione di un’alta dose di sonniferi; eppure il diverso modo di morire ha un valore simbolico che supera il fatto stesso della morte e che, in questo caso specifico, è proprio il terreno su cui si misurano tutti gli argomenti morali in gioco. Il rapporto tra volontà personale e morale pubblica, tra medicina e significato della vita, tra malattia e società.

Il modo in cui morire è proprio l’espressione fisica e concreta di un atto di volontà ed è proprio ciò che può aiutare la riflessione a discriminare tra l’eutanasia e l’omicidio. Rimane difficile credere che una persona che sceglie consapevolmente la dolce morte per riscattare la propria condizione di sofferenza senza speranza, possa accettare di morire in modo crudele o in qualsiasi modo. Potremmo credere sia eutanasia lasciarsi strangolare o farsi bruciare vivi? O possiamo confondere il martirio dei santi o la cicuta di Socrate con l’eutanasia? Persino il suicidio di Jacopo Ortis con il pugnale non è lo stesso del Werther che usa l’arma da fuoco. Le diverse morti e le diverse icone della morte hanno uno specifico e inalterabile significato. E’ proprio la modalità, il come a restituire un significato ai temi su cui ci interroghiamo e su cui si rischia troppo spesso di sprecare parole che rischiano la perdita di significato.

Aldilà del caso giudiziario Goslin, qualora avesse compiuto quel gesto estremo con la reale intenzione di assecondare il desidero del proprio compagno - cosa della quale ci auguriamo - dovrà chiedersi per il resto della vita se non sarebbe stato naturale e doveroso accompagnare la persona amata ad una morte fatta di dignità e di cessazione del dolore. L’eutanasia ha in se il concetto della pietas. Ne è la premessa e la sua condizione fondante.

La scelta di morire per non soffrire, la rinuncia a una qualità della vita che non si ritiene coerente con il proprio sistema di valori, la libertà di abbandonare l’esistenza, non si può confondere con un atto brutale; ed è tutto quello che sembra mancare troppo nella scena repentina del soffocamento che viene dall’alto e del cuscino schiacciato sul volto. Un’azione che azzera e quasi umilia la dignità della scelta di morire. L’icona di una morte eroica e insieme innocente. Quella di chi pensa che “una vita senza libertà non è una vita”.