In principio caddero le ideologie, poi pian piano anche le idee, rimaste soffocate
dalla personalizzazione della politica, e ciò fu il risultato ovvero
il prologo dell'avvento della videocrazia come moderno sistema di potere.
In Italia, negli anni '90, i partiti non ressero al peso del crollo anticipato
del "secolo breve" e, sia il muro di Berlino che gli scandali giudiziari
di Tangentopoli, concorsero all'anoressia, se non alla scomparsa degli storici
partiti di massa organizzati, ponendo così le basi per un modello molto
più simile a quello personalistico del notabilato delle prime acerbe
liberaldemocrazie fine-ottocentesche, rispetto a quello appena tramontato.
La nuova cornice bipolarista e il progressivo primato dei moderni sistemi mediatici,
su tutti la Televisione, confezionarono il nuovo panorama: non più, se
non in maniera residuale, comizi in piazza e sedi affollate di militanti, ma
tribune televisive e un pubblico plaudente. I vecchi simboli politici, affettivi per appartenenza e cerimoniali per retorica,
si sono con il tempo modificati sensibilmente per poter concorrere con quelli
nuovi alla sfida della fotogenia.
Le spinte ideali che muovevano larghi settori della società civile anche
oltre l'interesse personale, hanno ceduto il posto alla salita comoda e alla
portata di tutti su un palcoscenico evocante grandi immaginari virtuali, per
come li ha pensati il leader politico della situazione.
Tutto ciò secondo il tragitto di una strada percorsa individualmente, dove lo spettatore sostituisce il ruolo del cittadino inserito in un contesto sociale stratificato, mentre il lavoro, che pure c'è ancora, resta dietro le quinte insieme alle relative tematiche.
Svanito dunque il potere dei partiti nell'esercizio quasi esclusivo della regolazione delle domande politiche e della strutturazione delle risposte, secondo le prerogative tipiche di quella che spesso è stata definita la "democrazia dei partiti", ecco che la moderna "democrazia del pubblico" comporta involuzioni, effettivi rischi, ma anche grandi potenzialità.
Se da un lato è positivo che la mediatizzazione della politica, indebolendo
i partiti, possa positivamente affievolire anche la divisione partigiana del
grande pubblico non militante, incentrando l'attenzione sui programmi più
che sul tifo secondo l'appartenenza, d'altro canto i risultati sono stati per
ora ben altri.
Tutti i grandi partiti, nessuno escluso, volenti o non volenti, hanno dovuto
cedere il passo alla necessità della spettacolarizzazione del messaggio,
abbrutito ai livelli dello slogan rudimentale, il più possibile d'impatto
emozionale e dalla soluzione facile.
Spesso giocando pericolosamente anche con le paure archetipe dell'elettorato,
per altro già fortificate dagli sconvolgimenti sistemici generati dalla
globalizzazione e dalla emigrazione di massa.
Su questo piano hanno avuto terreno facile le tendenze di matrice populista,
xenofoba e demagogica, le quali non hanno esitato a riprodurre costantemente
quelle fobie precedentemente tradottesi in intenzioni di voto.
Un ruolo significativo in questo l'hanno avuto non solo i partiti, ma anche
i cosiddetti opinion leaders, in particolare i giornalisti televisivi,
cioè i diretti destinatari della devoluzione dei poteri politici verso
i grandi media.
Tutto ciò, potendo a prima vista sembrare un effetto democratizzante,
in realtà è rimasto il frutto di una informazione verticalizzata,
che ha determinato l'attuale superficialità, intesa come continua erogazione
di "notizie" scollegate da una riflessione su cosa abbia determinato
questi "fatti", che poi sono gli accadimenti e le sfide dei tempi
moderni.
A peggiorare la situazione c'è il fatto che tali grandi media sono in
realtà potentati di un'elite economica che ha i propri interessi, spesso
direttamente legati a quelli dell'elite politica, quando questi interessi non
sono proprio in conflitto, come nel caso italiano dell'anomalia berlusconiana.
E spesso vi è stata, anche da parte dei partiti meno "televisivi",
una notevole sottovalutazione del grado di efficacia del grande schermo nel
determinare la formazione del pensiero di quella parte di pubblico quasi aliena
alla politica, se è vero che vi sono otto milioni di italiani che traggono
la loro informazione soltanto dai "panini" confezionati dai mezzi
busti dei principali telegiornali, i cui ingredienti sono le rituali dichiarazioni
e scaramucce tra i portavoce di partito.
E' quindi diventato primario il potere dei principali media nel definire l'agenda.
La logica conseguenza di tutti questi cambiamenti sta nel fatto che il tradizionale
legame tra elettore e partito che c'era in Italia, spesso tramandatosi di generazione
in generazione con piccolissimi travasi di voto, elezione dopo elezione ha ceduto
il passo ad una relativamente vivace mobilità tra partiti e schieramenti.
Se ieri la campagna elettorale era quasi un rituale che non invertiva in ogni
caso le scelte dell'elettorato, oggi invece gli effetti della campagna elettorale
sono assai più rilevanti; e parallelamente è aumentata la quota
degli "indecisi" fino all'ultimo, cioè coloro che decidono
se e chi votare giusto nell'ultima settimana prima delle elezioni.
Un recente studio di Paul Lazarsfeld, della Scuola di Columbia, stima
che le campagne elettorali possono oggi spostare fino al 10% dei voti: non un
grandissimo numero di persone, ma comunque una cifra tale da decretare la vittoria
di una coalizione sull'altra.
A margine di questo, tuttavia, sta il progressivo emergere di Internet e della
comunità del Web come media d'informazione alternativo: quella che è
già stata definita una cyberdemocrazia, maggiormente orizzontale
nell'approccio e nelle possibilità a portata di "clic".
Il rischio che anche su tale nuova informazione dal basso venga messo il cappello
del potere costituito è reale; oppure - come accade in diverse dittature
- che venga subdolamente censurata e controllata; ma il sistema è difficile
da gestire dall'alto proprio per le sue caratteristiche aperte a tutti.
Se quindi l'influenza della cyberdemocrazia è ancora non paragonabile
a quella della videocrazia, nel prossimo futuro è probabile una sua sempre
maggiore capacità nel determinare la formazione di opinioni, o anche
solo nel riequilibrare quella prodotta dagli altri grandi media, radio e televisione
in testa, redistribuendo i rapporti di forza.
Più che uno Stato sociale del benessere informativo, l'auto-gestione
di una comunità che si fa essa stessa veicolo di notizie ed opinioni,
con un rivelante feedback sui piani gerarchicamente più alti e,
quindi, il possibile inizio di una rivoluzione mediatica a venire, che potrebbe
sovvertire il modello "a cascata" verticale, nell'immissione di notizie
destinate alla sfera pubblica. Se ci sarà ancora una sfera pubblica.