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Il governo Meloni continua a rendere lampante uno dei principali problemi del pensiero di destra: la tendenza ad affrontare problemi complessi con risposte semplici, elementari e quindi insufficienti. In pochi mesi abbiamo già avuto diversi esempi: era accaduto con il decreto Rave, poi con il decreto Carburanti e adesso – last but not least – con il decreto sui bonus edilizi. In tutti questi casi il governo ha prima emanato un provvedimento d’urgenza, immediatamente operativo; poi si è reso conto che il testo – formulato in modo rozzo, superficiale – creava problemi inizialmente imprevisti; infine, a poche ore dall’emanazione del decreto stesso, l’esecutivo si è detto disponibile modificare il pacchetto di misure. Senza alcun timore di risultare ridicolo, il governo ha annunciato per oggi un incontro con le associazioni di categoria interessate dal decreto sui bonus edilizi. Peccato che sia tardi: la fase del confronto e del dialogo, lo capisce anche un bambino, dovrebbe venire prima dell’emanazione del provvedimento, non dopo.

 

Ma entriamo nel merito. L’ultimo intervento del governo Meloni blocca le cessioni dei crediti e gli sconti in fattura per tutti crediti d’imposta che matureranno dopo l’entrata in vigore del decreto stesso. Questi crediti riguardano prevalentemente (ma non solo) i bonus edilizi: dal superbonus all’ecobonus, dal bonus ristrutturazioni al bonus facciate, passando per il sismabonus e per l’agevolazione volta all’abbattimento delle barriere architettoniche.

In linea puramente teorica, la misura non è sbagliata, perché alcuni di questi incentivi (il superbonus 110% e il bonus facciate al 90%) sono eccessivi. Di fatto, rappresentano interventi monetari mascherati da misure fiscali e, nel tempo, hanno creato una bolla speculativa che pesa in maniera abnorme sul bilancio dello Stato, mettendo a rischio i margini d’azione della politica economica. Per intenderci: il volume complessivo di questi bonus è arrivato a quota 110-120 miliardi di euro, di cui oltre 60 solo per il Superbonus 110%. Una cifra mostruosa, che supera la metà dell’intero PNRR.

Non solo: la cedibilità indiscriminata dei crediti d’imposta ha anche spalancato le porte alle truffe, che ormai viaggiano oltre i quattro miliardi di euro e, nel tempo, hanno portato a interventi normativi restrittivi che a loro volta hanno spinto molte banche a smettere di acquistare nuovi crediti.

Questi problemi sono indiscutibili, ma la soluzione non si trova nel decreto del governo, che, come al solito, usa la clava invece del bisturi e non si preoccupa delle conseguenze di questa attitudine alla Fred Flintstones. Innanzitutto, nel decreto non si dice una parola su come dare stabilità alle misure di efficientamento energetico degli edifici e più in generale alle ristrutturazioni (ad esempio in funzione antisismica o per eliminare le barriere architettoniche). Queste valutazioni sono particolarmente complesse e andrebbero accompagnate da riflessioni tecniche sugli effetti in termini macroeconomici (di sostegno al Pil), ambientali (per i mancati lavori di efficientamento energetico delle case) e distributivi (in che modo l’intervento impatterà sulle diverse fasce sociali?).

I risvolti sociali sono particolarmente significativi, e non solo per le ricadute sull’occupazione nel settore dell’edilizia. Il punto più importante è capire come se la caveranno le migliaia di famiglie e di imprese che, avendo seguito la legge, si ritrovano ora con lavori iniziati e pagamenti effettuati o promessi, ma senza più alcuna certezza che i loro crediti potranno essere incassati. I soggetti più colpiti sono quelli che non possono beneficiare del bonus come detrazione, perché non hanno abbastanza capienza fiscale: parliamo delle famiglie con i redditi più bassi, ma anche dei lavoratori autonomi nel regime della flat tax e di migliaia di piccole imprese che hanno concesso sconti in fattura. A loro il governo non ha pensato. E ora, come al solito, inizia il gioco delle pezze da rammendare qua e là sui buchi del decreto.