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Dopo un mese di teatrino, il Governo Meloni ha visto la luce e ora gli tocca fare i conti con una serie di grattacapi che nulla hanno a che vedere con la campagna elettorale. I problemi sono tanti: l’inflazione, a cominciare dal caro-energia; la legge di bilancio, da scrivere a tempi di record per evitare l’esercizio provvisorio; la flessibilità in uscita sulle pensioni, da inventare per evitare che le uniche regole in vigore rimangano quelle della legge Fornero; il PNRR da gestire (e, forse, da ridiscutere) senza compromettere l’afflusso di miliardi stanziati da Bruxelles per il nostro Paese e in parte già promessi ad amministrazioni locali e appaltatori vari.

 

Durante la campagna elettorale, Matteo Salvini aveva assicurato che nei primi giorni d’attività il nuovo governo di destra avrebbe varato il superamento della riforma Fornero sulle pensioni, i nuovi decreti sicurezza e l’autonomia differenziata. Le solite favole del DJ del Papeete? Di sicuro, anche perché al momento la priorità di Meloni si chiama caro-bollette.

Entro dieci giorni l’Esecutivo dovrà varare un provvedimento per prorogare fino a fine anno le misure attualmente in vigore per aiutare famiglie e imprese. Si tratterà del decreto “Aiuti quater”, in cui il neoministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, dovrà stabilire il destino dello sconto di 30 centesimi sulle accise della benzina (in scadenza il 18 novembre) e dei crediti d’imposta per le imprese, energivore e non (in scadenza il 30 novembre). Solo per arrivare alla fine di dicembre serviranno oltre sette miliardi di euro. Dopodiché, per il primo trimestre 2023 occorreranno altri 15 miliardi. Un conto che rischierebbe di lievitare di almeno il doppio se si dovesse ampliare il raggio dei beneficiari (con gli sconti per le fasce più povere).

Tutto questo riduce drammaticamente i margini di manovra con la legge di bilancio. Malgrado il tesoretto da 10 miliardi che il governo Draghi lascia in eredità per l’anno prossimo, a meno di improbabili aiuti in arrivo dall’Europa il governo non avrà i soldi per mantenere in maniera soddisfacente nessuna delle misure acchiappavoti decantate in campagna elettorale. E così già si pensa a come depotenziarle per renderle fattibili e al tempo stesso non perdere (del tutto) la faccia.

Per quanto riguarda la flat tax, potrebbe essere applicata solo agli incrementi di reddito e forse estesa agli autonomi nella fascia fino a 100 mila euro. E questo sarebbe il massimo risultato possibile: come dire, un’altra fregatura per i ricchi che ci erano cascati anche questa volta.

Ancora più caldo il versante pensioni. Senza interventi immediati, dall’anno prossimo tornerebbero in vigore le regole della legge Fornero tout court, senza alcuna misura per aumentare la flessibilità in uscita. Serve quindi una decisione rapida, che però - sempre per ragioni di conti - non potrà avere nulla di drastico né di rivoluzionario. L’idea più diffusa e di più facile realizzazione è quella di prorogare per un altro anno le misure in vigore (quota 102, Ape sociale e Opzione donna). La neoministra del Lavoro, Marina Calderone, ha concepito però un progetto più complesso: vorrebbe permettere l’uscita anticipata a chi ha tra 61 e 66 anni con la cosiddetta “Quota flessibile”.

Tradotto, significa che la somma di età anagrafica e contributiva dovrebbe dare 100 o 102, in modo appunto flessibile e non con paletti rigidi com’è stata previsto finora. Rimarrebbe solo un requisito minimo per i contributi, ma sarebbe particolarmente basso rispetto al passato: appena 35 anni. Si calcola che questo strumento consentirebbe l’uscita anticipata di circa 470 mila lavoratori. Calderone dovrà tenere conto anche di proposte differenti, come Quota 41 sponsorizzata dalla Lega, ma di fatto la sua “Quota flessibile” è quanto di più vicino a Opzione Uomo della premier Meloni e ad altre proposte di FdI.

Infine, il PNRR. Il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto ha già disposto una due diligence sui progetti in corso, ma conferma anche che il Governo intende chiedere una modifica del piano che tenga conto dei maggiori costi di energia e materie prime. Con il rischio di fare crollare l’impalcatura e perdere le risorse. Anche perché, nel frattempo, dalla lista dei ministeri italiani sono scomparsi sia quello della Transizione ecologica sia quello della Transizione digitale, creati dal governo Draghi proprio nell’ottica della gestione del PNRR, visto che, in base ai paletti europei, un terzo degli aiuti legati a Next Generation EU deve essere impiegato per progetti green e una quota analoga deve andare al digitale.

Oggi l’ipotesi più probabile è che Meloni nomini un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio a cui trasferire tutte le deleghe in materia digitale, ma è chiaro che un semplice sottosegretario non avrà mai né il peso e né gli strumenti propri di un ministro. Quanto al nuovo ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, basti pensare che Meloni ha confuso il suo nome con quello di Zangrillo, poi finito alla PA. Pare che i due si siano rimpallati i dicasteri parecchie volte fino all’ultimo giorno e che alla premier incaricata fosse sfuggita l’ultima inversione. Tanto per avere un’idea di quanto conti la competenza nella spartizione di compiti così delicati.