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Brava, tenace, popolare, aggressiva, astuta; le lodi per Giorgia Meloni, e per la sua irresistibile ascesa, si adagiano sul 26% di consensi raggiunto nella ultima tornata elettorale. Sono passati pochi giorni, eppure la sensazione che una frattura insanabile tra distopia e realtà sia molto più che uno spauracchio, si fa terribilmente strada.

La realtà distopica di una formazione post-fascista alla guida del paese, può trasformarsi in una realtà dispotica. Quanto di post e quanto di fascista ci sia nell’agenda di governo della coalizione che ha sbaragliato la concorrenza, avremo modo di sperimentarlo a breve. Di sicuro, l’affermazione di un partito che in così pochi anni dalla sua fondazione ha bruciato le tappe (e speriamo si limiti a quelle…) e che, soprattutto, conserva nel suo simbolo la fiamma di Predappio, si rivolge anche al 74% che non l’ha scelto.

 

Tra questi, anche l’altissima percentuale di astensione, quali che siano i motivi che l’hanno determinata. Per disinteresse, per rassegnazione, per protesta, per “mandare un messaggio”; tutte validissime ragioni, che nascondono però un disagio e un deficit di democrazia che oltrepassano la ragguardevolezza delle cifre. Tanto da far storcere il naso ai pasdaran del voto come agli irriducibili critici delle urne.

Di fatto, nell’Italia che ancora non aveva finito di applaudire l’avvento salvifico di Mario Draghi, si celebra l’exploit di una donna di destra e della destra peggiore, ammesso che ce ne siano di meglio. La genesi del successo della ex militante di

una sezione del Movimento Sociale Italiano, affonda le radici anche nel protagonismo in un palcoscenico della politica che assomiglia sempre più alla società dello spettacolo.

Uno scossone violento alla credibilità della Politica (sì, con la maiuscola) l’ha dato Silvio Berlusconi quasi trent’anni or sono, il quale si ritrova ora a fianco della leader di Fratelli d’Italia a farle da sparring-partner, dopo averla “inventata” come ministra della gioventù, dal 2008 al 2011. Sembra essere questo, il vero miracolo italiano.

Se volessimo allargare lo sguardo, il sonno del dopo Tangentopoli ha generato dei mostri. La scomparsa dei partiti-massa che hanno determinato le sorti della Prima Repubblica, ha progressivamente eroso il terreno della partecipazione fisica alla vita pubblica, che via via si è trasferita dapprima sulle frequenze televisive colonizzate dal Cavaliere per poi approdare sulle sinuose coste del web.

Potremmo dire che anche la res publica sia passata dall’analogico al digitale. Non è un caso che si parli diffusamente di Democrazia 2.0. Il meccanismo per cui una forza politica, piccola o grande che sia, esprime una visione, dei programmi e delle personalità, si è ribaltato; oggi sono le “personalità” a costruire attorno a sé una struttura, un movimento, un partito. La logica del maggioritario, affermatasi a cavallo tra XX secolo e terzo millennio, oltre ad aver causato una serie di leggi elettorali a dir poco oscene, ha portato all’eccesso il processo di personalizzazione della politica stessa. Un processo iniziato in ambito territoriale, con la scelta diretta del candidato a sindaco, estesosi poi a livello nazionale; il mantra del Sindaco d’Italia. Pertanto, con la crisi dei grandi partiti di massa e con l’abbandono volontario e sistematico, da parte di alcuni di essi, dell’attività politica di prossimità, comincia ad aggirarsi in tutti gli strati della società lo spettro della “identità”. O meglio, anzi peggio, della sua degenerazione in identitarismo.

L’orribile neologismo racchiude forse già in sé la deriva culturale e antropologica in cui si colloca. Se infatti, historia magister vitae, vuol dire che siamo stati e continuiamo a essere pessimi allievi. E se la estrema destra oggi si accinge a occupare la poltrona più ambita di Montecitorio, per giunta con una maggioranza inequivocabile, lo si deve principalmente a carenze altrui, più che alle indiscutibili determinazione e scaltrezza che attribuiscono bipartisan (a proposito di orribili emblematici neologismi) alla sua più autorevole rappresentante.

La litigiosità, anch’essa ahinoi dannosamente storica, della Sinistra e l’abiura dei suoi principi originari di tutta quell’area auto-definitasi “post comunista” all’affannosa ricerca di un illusorio approdo nella socialdemocrazia, ha fatto il resto. Il matrimonio, mai consumato, con un neoliberismo dal volto umano ha favorito altresì il decollo definitivo del disseppellito concetto di identità, trascinando con sé le forme più truci di nazionalismo e sovranismo.

Anche i movimenti, o tutto quanto di autenticamente sociale si è manifestato nel colpo di coda del Secolo breve, hanno segnato il passo; basti pensare al dissolversi delle mobilitazioni per la Pace. Su di loro però, si è abbattuto il pugno duro della repressione e della criminalizzazione, riproducendo spesso le tristemente note modalità degli anni Settanta. La mattanza di Genova del 2001 e, sebbene con tutte le dovute differenze, i fatti del 15 ottobre 2011 a Roma, ne sono testimonianza indelebile. Almeno fino a quando riusciremo a proteggere la Memoria dagli attacchi del revisionismo e dalla istigazione all’oblio.

C’è però un aspetto che proietta il tema della identità su un piano di marketing politico, di strategia elettorale; di mutazione antropologica, per ricorrere alla lucidità profetica di Pier Paolo Pasolini. L’odierna esaltazione dell’io, a detrimento del noi, non ha neanche lontanamente a che vedere con le mistificanti millantate e abusate teorie nietzschiane. Riguarda piuttosto la glorificazione dell’individualismo, il brodo culturale in cui da sempre sguazza ogni tipo di fascismo, perfezionato dall’insediamento ormai in pianta stabile dell’era social. Del dominio algoritmico.

Il richiamo costante, martellante alla identificazione in un progetto politico che si presenta come novità - contro il vecchiume dell’establishment e in versione post-ideologica, rispolverando la retorica nazionalista come nel caso di Orbàn e Morawiecki - si avvale anche della supremazia mediatica conquistata innanzitutto nella dimensione digitale.

La liquidità del pensiero e del tessuto sociale, secondo la imprescindibile intuizione di Bauman, trova così conforto nella apparente sicurezza della identità; il Capitano Salvini, la Patriota Meloni. Le relazioni umane, che dovrebbero essere la base e la garanzia di saldezza di ogni comunità, passano a uno stato di subalternità rispetto al potere dissuasivo della Rete. Del modello capitalistico di produzione che celebra il singolo a danno della collettività. “Io sono Giorgia”, tuonava alla platea franchista offertale dal leader di Vox in Spagna, pochi mesi fa, prima che il livore nostalgico di quel palco facesse posto alle distensive ed ecumeniche dichiarazioni all’indomani dei risultati elettorali.

In uno scroscio di applausi servili e in una infinità di like e cuoricini, “A noi” è diventato “A me”.