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Con il solito mezzo sorriso e il solito completo da matrimonio, Luigi Di Maio si è prodotto nell’ennesima capriola della sua carriera. Chi grida allo scandalo ha la memoria corta, perché, nella biografia del fu “ragazzo straordinario”, la scissione dal Movimento 5 Stelle non è affatto il capitolo più imbarazzante.

Parliamo di un uomo capace di chiedere l’impeachment di Sergio Mattarella per poi giurare (più volte) nelle sue mani. Un uomo capace di rendere omaggio ai gilet gialli per poi genuflettersi davanti a Macron. Un uomo capace di scagliarsi per anni contro l’Euro e l’Unione europea per poi riscoprirsi europeista radicale, atlantista di ferro, marionetta che consegna i suoi stessi fili a Mario Draghi. Un uomo capace di difendere “il limite dei due mandati” salvo poi spaccare il partito per dribblare quella stessa regola (ed evitare, si dice, una deroga che Conte avrebbe calato dall’alto solo in suo favore, con paterna magnanimità).

 

A fronte di tutto questo, cosa volete che sia una scissione del Movimento? Ordinaria amministrazione da Prima Repubblica. Certo, Di Maio fino a ieri pretendeva di aggiungere il “vincolo di mandato” nella Costituzione e si vantava della multa che i pentastellati pretendono d’imporre a chi salta da un gruppo parlamentare a un altro. Ma nella vita si cambia idea, no? A volte anche rapidamente.

Il problema ora è capire quali conseguenze avrà la scissione dimaiana sul futuro scenario politico. Nel medio termine, probabilmente poco o nulla, perché il parlamento non sarà in grado di riformare la legge elettorale in senso proporzionale e quindi nel 2023 la destra dovrebbe vincere le elezioni senza grandi patemi. Sul breve periodo, tuttavia, la spaccatura del Movimento 5 Stelle mette ancora più nei guai Enrico Letta, la cui strategia del “campo largo” diventa ogni giorno meno difendibile e comprensibile.

Con i pentastellati ridotti alle macerie, infatti, non si vede quali vantaggi dovrebbe portare al Pd l’alleanza per la quale il segretario si batte da tanto tempo. Forse Letta non se ne è accorto, ma l’universo in cui viviamo oggi non è quello in cui Giuseppe Conte rappresenta “un punto di riferimento fortissimo per i progressisti”, come si espresse Nicola Zingaretti.

Allo stesso tempo, però, è difficile anche capire il fremito che d’un colpo sembra ravvivare il popolo dei centristi. Dopo aver passato anni a insultare Di Maio, oggi una serie di personaggi come Sala, Tabacci e Mastella vede nell’ex grillino una speranza di portare finalmente cemento e piloni nel Grande Cantiere di Centro (una sorta di Big Foot della politica italiana, figura mitologica di cui tutti parlano da sempre ma che nessuno ha mai visto da vicino). Ed è subito un fioccare di commentatori liberal che già vedono nascere il Nuovo Polo Centrista, un’ammucchiata cattolica, liberista, europeista e filoamericana che, in teoria, dovrebbe fare da ago della bilancia perfino in un sistema maggioritario.

D’altra parte, sull’onda dell’eccitazione, gli stessi commentatori sembrano dimenticare il vero ostacolo che negli ultimi anni ha impedito la nascita del GCC, e cioè l’ipertrofia degli Ego. Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno dato vita a due partitini identici, sovrapponibili sotto ogni aspetto, ma non si mettono insieme perché si detestano a vicenda e preferiscono rimanere galli solitari nel proprio pollaio, per quanto angusto. Pensare che questo stallo si possa sboccare con l’arrivo di Luigi Di Maio - che sia Renzi sia Calenda hanno ricoperto d’improperi per una vita - richiede qualcosa di vicino a uno slancio fideistico. Ma con Di Maio, in fondo, non si sa mai: perfino questa assurdità, un giorno, potrebbe diventare realtà.