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La celebrazione a media unificati di Sua Santità Mario Draghi non accenna a indebolirsi, ma la verità è che nemmeno il sommo vate dell’eurocrazia riesce a fare miracoli. E, di fronte alla necessità di rispettare una tabella di marcia, rimarremmo italiani anche se a guidarci fosse il dio Thor. Prendiamo il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che contiene tutti gli impegni assunti dall’Italia in cambio di aiuti europei per oltre 190 miliardi. In base a quel documento - citato da tutti e letto da nessuno - entro il 2021 dovremmo approvare 27 riforme e realizzare 24 investimenti. Ebbene, alla fine dell’anno mancano poco più di tre mesi e siamo ancora a caro Mario ti scrivo: fin qui, abbiamo dato il via libera ad appena otto riforme e a cinque investimenti.

 

I ritardi più vistosi sono quelli accumulati sulla riforma del fisco e sulla legge annuale sulla concorrenza, che andavano approvate entro settembre e invece con ogni probabilità slitteranno alla seconda metà di ottobre. Il motivo? Semplice: impedire che i partiti usino provvedimenti di grande interesse per fare campagna elettorale in vista delle amministrative di inizio ottobre. Per la stessa ragione non è ancora entrato nel vivo il dibattito sulla riforma delle pensioni: sappiamo solo che Draghi non ha intenzione di rinnovare Quota 100, né di sostituirla con qualcosa che le somigli. Ma su come intenda rimpiazzare la misura-manifesto della Lega - che, pur essendo una fregatura per gli italiani, ha un indubbio valore simbolico dal punto di vista politico - la nebbia è ancora fitta.

Il problema è che, per ridurre le bandierine elettorali sui provvedimenti più importanti, si rischia di creare un ingorgo legislativo da bollino nero di Ferragosto. Le difficoltà non riguardano il Documento programmatico di bilancio, che va presentato entro il 15 ottobre ma quest’anno non sarà altro che un riassuntino del Pnrr. La scadenza più impegnativa arriva cinque giorni dopo: il 20 ottobre è l’ultima data utile per dare il via libera al disegno di legge di bilancio, ossia l’articolato della manovra 2022.

In altri termini, rimane meno di un mese per organizzare - almeno a grandi linee - il più capiente dei calderoni normativi, che quest’anno sarà ancora più sproporzionato del solito. Visto che il tempo manca e le leggi da varare sono un’enormità, infatti, nella finanziaria del prossimo anno rischia di finire un po’ di tutto: dalla revisione degli ammortizzatori sociali (compreso, in teoria, il reddito di cittadinanza) a una riforma delle pensioni che permetta di superare Quota 100 ma allo stesso tempo ammorbidisca la flessibilità in uscita rispetto alle rigidità della legge Fornero; dal prolungamento del superbonus al 110% all’anticipo del taglio del cuneo già a partire dal 2022 (un espediente per dribblare i tempi lunghi della delega fiscale).

Letto così sembra davvero un libro dei sogni, sia per il poco tempo a disposizione sia perché Lega e Movimento 5 Stelle non sembrano affatto inclini al compromesso sui temi che ritengono più rappresentativi.

Il discorso non riguarda il Partito Democratico, che per natura è refrattario alle battaglie politiche e quando sceglie un cavallo su cui puntare si accerta sempre che sia il più sciancato dell’ippodromo. Dopo le figuracce sul Ddl Zan, sullo ius soli e sul voto ai sedicenni, Letta ha scelto una nuova katana per l’harakiri: il salario minimo. Al di là del contenuto della proposta e del suo valore - su cui si può discutere - il punto è che difficilmente si riesce a immaginare un’idea con meno possibilità di passare in Parlamento: non piace alla destra, non piace al centro, non piace a Confindustria e non piace ai sindacati (perché toglie spazio alla contrattazione). È solo un altro strumento per appagare la vocazione del Pd alla sconfitta. E in fondo, fra le tante leggi che dovremmo fare e non facciamo, nemmeno si nota.