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Cambiare tutto per non cambiare niente. Il Gattopardo, al Nazareno, ha le sembianze di un democristiano felpato, sornione e un po’ sonnolento. È Enrico Letta, eletto domenica segretario del Pd. Il risultato in assemblea è bulgaro (860 sì, 2 no e 4 astenuti), ma solo perché l’ex Premier, di fatto, non aveva avversari: era l’unico nome spendibile per non lasciare la nave alla deriva e allo stesso tempo disinnescare la guerra civile. Almeno per ora.

 

Sotto il profilo politico, l’ascesa di Letta segna un punto a favore di Nicola Zingaretti. Con le dimissioni a sorpresa, l’ex leader del partito ha spiazzato gli avversari interni, ossia Base Riformista, la corrente degli ex renziani (che poi tanto ex non sono). Il progetto di Guerini, Lotti & Co. era chiaro: logorare il segretario fino all’autunno, costringerlo a convocare un congresso con le primarie e sostituirlo con Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna. Per capire la strategia, bisogna considerare che Base riformista domina i gruppi parlamentari dem (galeotte furono le liste elettorali colonizzate da Renzi nel 2018), ma allo stesso tempo ha numeri risibili in assemblea. L’incoronazione di Bonaccini aveva quindi un duplice obiettivo. Da una parte riaprire le porte al leader di Rignano (prigioniero del fallimento di Italia Viva) e rompere il fronte con M5S e Leu, avvicinando il Pd a Forza Italia e ai cespugli di centro. Dall’altra, garantirsi un posto in Parlamento anche al prossimo giro di giostra.

La mossa in contropiede di Zingaretti ha sconvolto questi piani. Incapaci di opporre un nome credibile a quello di Letta, gli ex renziani sono stati costretti ad accettare l’ex premier e a fare marcia indietro sulla richiesta di primarie. Il congresso, se si farà, sarà solo tematico. Prima di accettare l’incarico, infatti, Letta ha chiarito che non farà da traghettatore: se torna, lo fa solo con la garanzia di rimanere in sella fino alla scadenza del mandato, nel 2023. Tradotto, significa che nel 2022 sarà lui a trattare con gli altri leader di maggioranza per l’elezione del Presidente della Repubblica e che sempre lui compilerà le liste elettorali per le politiche del 2023.

Non solo. L’elezione di Letta significa anche la conferma della linea politica zingarettiana, ossia l’alleanza fra Pd, M5S e Leu tanto osteggiata da Base Riformista. Ed è questa la peggiore sconfitta per Matteo Renzi, che ha fatto cadere il governo Conte 2 (anche) per rompere il fronte del cosiddetto “nuovo centrosinistra” e ora si ritrova con i suoi più acerrimi nemici a guidare i due principali partiti dello schieramento: Letta al Pd e Conte al Movimento 2050, o comunque si chiamerà la creatura in gestazione nel ventre grillino.

Il problema è che tutto questo riguarda sempre e solo gli equilibri di palazzo. Chi si aspetta un cambiamento vero nell’anima del Pd, nella sua capacità di dialogare con i ceti popolari, di aumentare la presa sul territorio, non potrà che rimanere deluso. E questo perché la retorica del Nazareno si fonda su un grande equivoco: si parla di “recuperare” il rapporto con le periferie, di “tornare” ad ascoltare i bisogni delle persone, ma i verbi sono sbagliati perché i dem non hanno mai avuto alcun rapporto con le periferie, né sono mai stati vicini agli ultimi. Il Pd non è diventato il partito delle Ztl: lo è sempre stato. Dalla fondazione, non ha mai vinto le elezioni politiche, eppure è stato quasi sempre al governo, dimostrando di conoscere i corridoi del potere molto più delle strade.

Fa quasi tenerezza oggi sentire Letta che parla di “rivoluzione nei circoli”. Parole vacue, come sempre, che non significano nulla per nessuno. Che non accendono l’interesse, la passione, il senso di appartenenza di nessuno. Il nuovo segretario potrà anche illudersi di cambiare tutto stravolgendo la segreteria, l’organizzazione, gli assetti, gli incarichi del partito. Ma la verità è che, se avrà un merito, sarà quello d’impedire la resurrezione di Renzi e dei renziani. Come dire che, nel migliore dei casi, non cambierà niente.