Con la confitta alle elezioni amministrative, che è costata a Forza
Italia una brusca perdita di consensi, pare passata di moda l'idea della "spallata",
dell'"avviso di sfratto" che pretendeva una destra rabbiosa, priva
di freni inibitori e anche della dose minima di educazione, politica e civile.
L'ultimo spettacolo, andato in scena a Napoli - che si riteneva conquistabile
- vedeva un leader che saltava, urlava, sbraitava e tirava fuori tutta la volgarità
dell'arricchito brianzolo. Che insultava gli avversari portati a rango di nemici;
che minacciava il clima politico e sociale con comizietti mussoliniani; che
scriveva ai leaders stranieri minacciando di tornare a breve; che rideva sguaiato
con tutti i suoi denti finti alle insolenze dei suoi dipendenti contro il Capo
dello Stato. Questa sorta di caravanserraglio che ha fatto rimpiangere un qualunque
Bagaglino senza censura, è stata la nuova modalità espressiva
dei fascisti, post-fascisti e quasi fascisti che abitano la cosiddetta Casa
della libertà nella stagione - breve ma intensa - della rivincita. E'
durata poco la stagione; schiaffeggiata a Napoli e a Roma, in bilico fino all'ultimo
voto a Milano, la breve stagione della rivincita si é rivelata presto
quella della riperdita. Ma davvero la rissosità della destra è frutto dell'incapacità
a riconoscere vittorie e sconfitte, anche quando abbiano margini risicati? Di
una sorta, cioè, di scarsa educazione istituzionale e politica all'accettazione
delle regole del gioco democratico?
Forse. Ma, più probabilmente, Berlusconi avverte la fine di un regime
che gli garantiva il potere politico, economico e mediatico che configurava
una sorta di dominio assoluto sul Paese. Le leggi per garantirgli la difesa
e l'ampliamento dei suoi interessi; il denaro per alterare la competizione politica;
televisioni, giornali, periodici, siti internet e case editrici per condizionare
ogni possibile pubblico ed orientarlo culturalmente, prima ancora che politicamente.
Alla fine, la garanzia del mantenimento dell'impero era questa: l'impero è
vasto, ma per renderlo onnipotente bisogna favorirlo e la consolle di controllo
utile allo scopo si trova a Palazzo Chigi.
La paura di Berlusconi è quella di vedere l'Italia diventare un paese
con leggi e regole. Il suo terrore autentico è quello di dover vedere
una nuova legge sul sistema misto radiotelevisivo, come anche una nuova legge
sul conflitto d'interessi. Nessuna pruderie bolscevica: se solo le due
leggi suddette fossero tradotte in italiano e copiate letteralmente dalla giurisprudenza
statunitense, quella cioè dell'impero "del bene", il cavaliere
nero sarebbe costretto a competere alla pari, cioè a perdere.
Perché una delle grandi menzogne della storia della costruzione dell'impero,
è quella che lo vorrebbe più bravo, più abile, più
ardimentoso ed innovativo degli altri competitors. Non è affatto
vero.
Non vogliamo qui aprire una riflessione - che pure andrà fatta fuori
dalle Procure - sull'origine, "miracolosa", delle sue improvvise ricchezze.
Ma, pur riconoscendo una indubbia straordinarietà dell'uomo, il suo possedere
abilità fuori del comune (anche a mentire spudoratamente, va detto) le
sue aziende sono cresciute ed hanno prosperato anche in virtù dei vuoti
legislativi che rendevano la poche norme esistenti inefficaci e, soprattutto,
con l'aiuto politico garantitogli dall'asse Dc-Psi che governava l'Italia quindici
e venti anni fa. Decreti ad hoc, leggi su misura: questo è quanto
Berlusconi ha utilizzato per divenire lo straordinario imprenditore che è
diventato. Finita l'epoca della supplenza politica, con Tangentopoli, il cavaliere
di Arcore ha dovuto pensarci direttamente. Qui, altro che nella minaccia del
comunismo, la ragione principale della "discesa in campo". Qui, e
non altrove, si trova oggi la ragione delle sue paure attuali. Le leggi "ad
personam", vero e proprio segno tangibile del suo quinquennio, altro non
sono state se non l'iniziativa diretta dell'ex-premier per garantirsi, direttamente,
ciò che altri non potevano più garantirgli.
Del resto, ad un imprenditore che attraversa ogni scandalo finanziario degli
ultimi vent'anni, che viene accusato di corruzione di tutte le figure disponibili
sulla scena e di aver alterato gli scambi e le compravendite delle grandi imprese
italiane, davvero risulterebbe arduo mettersi in competizione rispettando le
regole. La regola di Berlusconi è che le regole sono per gli altri, non
per lui. Con regole chiare, valide per tutti e senza appoggi politici, Berlusconi
perde.
Per Berlusconi non sarà semplice guardare avanti, ma non è detto
che sia meglio guardare indietro. Dovrà tentare un terreno diverso di
mediazione o scegliere la rappresentazione politica dell'impresa come esclusiva
espressione del suo blocco sociale di riferimento. Ma sarebbe una scelta fortemente
penalizzante da un punto di vista elettorale. Se ne comprende l'afflato e la
naturale attrazione, ma le elites scelgono chi vince, se non possono vincere
direttamente. Prova ne siano gli applausi dedicati a Padoa Schioppa.
E che sia stato applaudito dal parterre di Confindustria è comprensibile:
chi dovrebbero applaudire i padroni di un capitalismo straccione e assistito,
che dopo la sconfitta bruciante patita sull'articolo 18 è ora alla ricerca
di un cammino possibile che tenga il Paese ancora alle ferriere mentre straparla
di modernizzazione?
Molti si chiedono se Confindustria abbia presentato una dichiarazione di nostalgia
per Berlusconi. Non c'è dubbio. Il quinquennio passato, reso allegro
da condoni, riduzione di tasse ed assalti ai salotti buoni, è stato uno
di quelli che a Viale dell'Astronomia non dimenticheranno facilmente.
Nemmeno i precari, i licenziati e gli impoveriti dalla finanza creativa lo faranno.
Si tratta di capire se il governo Prodi sarà in grado di regolare le
pulsioni della classe padronale: non serve piegarla, serve educarla al ruolo
sociale dell'impresa. Per farlo, non è necessario evocare Marx. Basta
Einaudi.